Immaginiamo di essere un viaggiatore in Sicilia: ovviamente si parte da Palermo, dove il “non turista” dovrebbe usare in luogo di una mappa, lo sguardo. Possibilmente a bordo di un fuoristrada che permette di scorgere in maniera più compiuta, percorrendo i vigneti delle Terre Sicane, su un pilone di elettricità, un nido di cicogne e i voli pindarici e in diagonale nel cielo superbo del lato orientale dell’Isola.
Un tour che porti da Palermo a Salaparuta, a Santa Margherita del Belice, ad Agrigento, a Racalmuto, luoghi noti ai lettori di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, di Luigi Pirandello e di Leonardo Sciascia. E mentre si macinano chilometri ripercorrere ciò che è scritto nel Gattopardo: la Sicilia da venticinque secoli porta sulle spalle il peso di magnifiche civiltà che bastano da sole a spiegare la complessa e ricca gastronomia della nostra isola mediterranea, frutto di una stratificazione culturale incredibile, quella stessa che ha prodotto capolavori architettonici e artistici unici.
La prima sosta a Palermo è quella, dovuta, a pochi metri da piazza San Francesco, presso un tempio del cibo di strada dove già, di mattina, fuoriescono gli odori dell’Antica Focacceria: pane ca’ meusa, panelle, cazzilli, arancine, sfincioni. Passare poi davanti alla storica trattoria “La Casa del brodo” (dal Dottore), altro luogo cult della cucina popolare della città, dove la tazza del brodo, le patate con lo zafferano e il bollito sono il menu fisso da 120 anni. Non si può lasciare Palermo al mattino senza un dolce, così deviazione alla volta della pasticceria di Salvatore Cappello per gustare un croissant al pistacchio.
Poi verso Santa Margherita del Belice, un percorso dove il paesaggio offre un caleidoscopio di colori e di nuances, di vigneti e di oliveti, e ancora più emozione e commozione suscita un paese che non c’è più: Gibellina, sepolto prima dalla natura e poi dalla poesia (il Cretto) di un grande artista, Alberto Burri. Poco lontano Santa Margherita di Belice, con monumenti legati alla memoria di Tomasi di Lampedusa, tra cui un deserto palazzo dei suoi avi, i Principi Filangeri di Cutò. Sulle tracce dell’autore del Gattopardo ci si può imbattere nel “torreggiante timballo di maccheroni”, servito a Donnafugata. Fragranze che si mescolano ed esaltano “il prezioso color camoscio”, ottenuto da un estratto di carne realizzabile solo nelle cucine dei Monzù, e un formaggio raro, leggermente acidulo,“la vastedda del Belice”, di pasta filata, ottenuto da latte delle poche pecore del Belice.
Il viaggio potrebbe continuare verso il territorio di Menfi, Porto Palo, Selinunte, la Riserva naturale del fiume Belice, dove si sente forte l’odore salino del mare e soprattutto il “ribollir di tini”, vista la presenza di famosi produttori di vino. Godersi il tramonto del sole tra piante secolari di carrubo, e gli olivi del Baglio San Vincenzo, dove si può scoprire perché la cultivar si chiama “nocellara”: ha la forma di noce e il suo olio ha sapore fruttato con un retrogusto di mandorla, carciofo e pomodoro che si sposa felicemente con il pane ottenuto con grani antichi di cui la Sicilia è la regione principe, a cominciare dalla tumminia. A cena si possono gustare le busiate con pesto siciliano alle mandorle e, soprattutto finire con il bianco mangiare di latte di mandorla.
Ripartire con destinazione Agrigento, la casa di Luigi Pirandello e la Valle dei Templi. Appena fuori dal sito archeologico ci sono tanti locali turistici, ma fermata d’obbligo è quella al ristorante “Il re dei Girgenti”, che prepara un piatto che ricorda Tomasi di Lampedusa, quando ne “La Sirena” scrive: “il mare: il mare di Sicilia è il più colorito, il più aromatico di quanti ne abbia visti; sarà la sola cosa che non riuscirete a guastare, fuori delle città. Nelle trattorie a mare si servono ancora i rizzi spinosi e spaccati a metà? Eppure sono la più bella cosa che avete laggiù, quelle cartilagini sanguigne, quei simulacri di organi femminili, profumati di sale e di alghe”. Quel piatto sono gli spaghetti ai ricci di mare, così magistralmente descritti dall’autore del “Gattopardo”.
Da Agrigento a Racalmuto, cuore nativo di Leonardo Sciascia, uno scrittore molto amato che ci fa scoprire “La Contea di Modica” dove si produce lo stesso cioccolato che si produce ad Alicante, in Spagna. Parlando con la gente nei bar di Racalmuto o con gli amici del famoso circolo Unione, si percepisce l’amore per Sciascia; si rivivono le pagine di “Le parrocchie di Regalpietra”. Un borgo ricco di sorprese gastronomiche: i piatti squisiti della trattoria “Taberna” (pizza, stigghiole, lingua, filetto di maiale dentro la rete, macco con finocchietto, cavatelli alla norma, dolce di mandorle), i golosi taralli dolci (tradizionali di Racalmuto) e torroncini di pasta della pasticceria Parisi.
Potremmo continuare il viaggio scendendo ancora più giù fino a Cattolica Eraclea, fino all’Isola di Capo Passero dove il mare ha il colore del vino e il pesce ha un gusto quasi evocativo di fuochi e libagioni d’altri tempi, per poi concludere il Giro approdando a Trapani e gustare il cous cous “a trapanisi”, un piatto che racchiude in sé tutto il gusto della Sicilia e quasi tutta la sua storia.
Quella di seguito è la ricetta più vicina all’originale:
Ingredienti per 4 persone
300g di cous cous, 2 l di acqua, 600g di pesce (scorfano, anguilla, morena, cernia), 1 cipolla, 1 spicchio d’aglio, prezzemolo, 1 peperoncino piccante, 1 pomodoro, 2 chiodi di garofano, cannella, 1 foglia di alloro, zafferano in polvere, olio extravergine d’oliva, sale.
Procedimento
Affettate la cipolla, tritate l’aglio, il prezzemolo e la foglia di alloro e fate soffriggere il tutto in una casseruola con dell’olio. Aggiungete il pomodoro tagliato a pezzi. Pulite il pesce, sfilettatelo e disponetelo nella casseruola, coprite con l’acqua, salate, pepate, aggiungete lo zafferano e le spezie continuando la cottura a fuoco moderato. Quando il pesce è cotto prendete metà del sugo, filtratelo e aggiungete dell’acqua tiepida, adagiandolo poi nella parte inferiore della cuscussiera, l’apposita pignatta composta da due elementi. Nella parte alta mettete il couscous, cospargete con l’olio, mescolate e cuocete a vapore per ½ ora. Per chi non avesse la cuscussiera, ci si può arrangiare con un cestello per la cottura a vapore oppure con del couscous precotto. Nel frattempo filtrate il restante brodo con cui coprirete la semola che, una volta cotta, avrete disposto in una zuppiera lasciandola riposare in caldo per almeno 20 minuti, finché si sarà imbevuta del brodo. Servite il couscous con il pesce e il sugo restante che avrete tenuto in caldo.
per saperlo:
I primi ad elaborare questa tecnica furono i Berberi del Maghreb, gli arabi poi lo diffusero nel mondo. In Italia è tipico del trapanese, ma l’Artusi ci informa che era diffuso anche tra gli Ebrei nel Livornese.