Roma marzo 2013, interno giorno: alla congratulazioni per l’elezione, la deputata democratica risponde “tanto tra qualche mese la Camera verrà sciolta”… E’ stata parlamentare fino al 4 marzo 2018.
Il bello della politica è la capacità, a volte insospettata, di trovare soluzioni nelle condizioni più difficili e l’abilità nella manovra -ora condannata come inciucio- è sempre stata una delle componenti fondamentali della “più nobile delle professioni liberali”, come il “leader Massimo” definì qualche anno fa l’attività politica. L’Italia si avvia ad una situazione di emergenza: a sessanta giorni dalle elezioni non è alle viste alcuna maggioranza di governo, da Bruxelles arrivano espliciti segnali di preoccupazione, l’armistizio dichiarato unilateralmente dopo il 4 marzo dalla grande speculazione finanziaria internazionale sui mercati non sembra destinato a durare a lungo. Nel frattempo i dati confermano che il nostro è il paese europeo con la più lenta crescita, con rilevanti problemi nel mercato del lavoro, soprattutto per quanto riguarda le giovani generazioni, concretamente esposto al rischio di non riuscire a cavalcare l’onda della ripresa economica mondiale prima che essa si esaurisca.
Un giovane e brillante storico dell’economia, Emanuele Felice, ha scritto che l’Italia è nell’Unione lo stato membro- eccetto Grecia e Portogallo- in cui coesistono i tre fattori di disuguaglianza più alti:
la maggiore disuguaglianza tra le generazioni, con il reddito dei figli che dipende maggiormente da quello dei genitori,
il più basso livello di istruzione,
crescenti disuguaglianze territoriali con il Mezzogiorno che negli ultimi vent’anni si è sviluppato meno delle altre ripartizioni geografiche.
Di tali problemi strutturali, che configurano le scelte decisive per il nostro futuro, non si trova traccia nella discussione sulla formazione del nuovo governo. Il dibattito è tutto sulle formule, sulla ricerca di una maggioranza qualunque sia; pur di formare un governo si era perfino accordata nobiltà alla vecchia formula andreottiana dei due forni, ma in entrambi il pane infornato si è carbonizzato. Al punto che il M5S sembra improvvisamente tornato all’ortodossia paranoide del “sono tutti contro di noi”, segno inequivocabile dello stallo delle scelte tattiche fin qui adottate. Neanche Salvini, nonostante le apparenze, sta bene in salute: è in questo momento il leader dotato di maggior visibilità, attende che il presidente Mattarella gli conferisca l’incarico, ma deve guardarsi innanzitutto dai suoi alleati; dal vecchio Berlusconi che- tra Molise e Friuli-Venezia Giulia- ha dimostrato di esser ancora in grado di non farsi scaricare a Giorgia Meloni che, con apparente (e velenosa) ingenuità, gli propone di farsi bocciare in Parlamento per gestire le elezioni da presidente del Consiglio.
Tutti aspettavano la Direzione del PD come una sorta di ordalia, ma tanto tuonò che non piovve. Se riusciamo ad interpretare quanto è avvenuto ieri al Nazzareno, pare di poter affermare che il match tra renziani ed antirenziani si è concluso in parità. L’ex presidente del Consiglio ha portato a casa la bocciatura dell’ipotesi di un governo PD-M5S, ma ha dovuto esporsi fino in fondo, prima con l’intervista a Fabio Fazio ad urne friulane appena chiuse poi costringendo al documento di conta i suoi parlamentari e i membri a lui vicini dell’organismo di partito. Tuttavia all’interno dei democratici la situazione sta sobbollendo: cresce l’area degli insofferenti ben aldilà dell’opposizione esplicita. Il passaggio cardine della relazione di Maurizio Martina è quello in cui chiude all’ipotesi di un appoggio del PD a qualunque accordo, più o meno mascherato, con Salvini e Berlusconi. L’altra chiave interpretativa è la scelta di andare al congresso per eleggere il segretario, che sarà il terreno vero in cui si aprirà lo scontro tra le diverse e contrastanti anime dei democratici. Non si sottovaluti neanche la netta presa di distanza dall’ex segretario di Gentiloni che si prepara a scendere in campo come leader di un rinnovato centrosinistra in caso di nuove elezioni; che non sia una scelta suicida lo dimostra il fatto che in Friuli, nonostante tutte le previsioni dei sondaggisti, il PD non è ulteriormente crollato. Per questo non ci sembrano cogliere nel segno alcune analisi giornalistiche volte ad evidenziare la sconfitta del reggente del PD: per non citare quella acida del Caton censore nazionale Marco Travaglio, ormai dedito all’insulto, neanche l’Huffingtonpost italiano di Lucia Annunziata sembra sottrarsi alla sindrome che decodifica ogni atto politico attraverso la lente deformante dell’antipatia- del resto largamente condivisa- per l’ex presidente del Consiglio. Il segnale politico più interessante che arriva dal Nazareno è, in realtà, quello di rimettere la crisi nelle mani del presidente Mattarella, del quale si dice che sia molto irritato per la maniera in cui le forze politiche si son mosse in queste settimane: ciò potrebbe avvicinare una soluzione di governo a termine che allontanerebbe il ritorno alle urne di almeno un anno. Sergio Mattarella ha concesso ai suoi interlocutori un week end di riflessione; vedremo lunedì se esso avrà prodotto novità o sarà servito solamente a cesellare il pallino da consegnare alle sicure mani del presidente della Repubblica.