“Avrei voluto parlar a lungo di qualche argomento che interessasse tutti ma la sopravvenuta cecità m’impedisce una pluralità di cose, la più grave è quella di non potere più vedere la bellezza femminile”, disse Camilleri in occasione dell’ultimo conferimento di laurea honoris causa, in Lingue e letterature moderne europee e americane da parte della Facoltà di Studi Umanistici di Cagliari, nel 2013.
Al 54esimo Festival del teatro greco di Siracusa, l’11 giugno prossimo, Camilleri, divenuto completamente cieco, reciterà un monologo di cui è autore e protagonista, “Conversazione su Tiresia”, con la regia di Roberto Andò.
“Chiamatemi Tiresia, sono qui per raccontarvi una storia più che secolare che ha avuto una tale quantità di trasformazioni da indurmi a voler mettere un punto fermo a questa interminabile deriva. A Siracusa vi dirò la mia versione dei fatti, e la metterò a confronto con quello che di me hanno scritto poeti, filosofi e letterati. Voglio sgombrare una volta per tutte il campo da menzogne, illazioni, fantasie e congetture, ristabilendo i termini esatti della verità.”
Andrea Camilleri sceglie Tiresia e quel che di questo personaggio ci ha trasmesso la letteratura, la filosofia, la poesia, e lo elegge a pretesto – come già fece Borges con molti dei suoi temi prediletti – per investigare un pensiero da cui estrarre tracce, o prove, della sua vita precedente. Le infinite manipolazioni subite da questa straordinaria figura attraverso epoche e generi, costituiscono per Camilleri uno specchio in cui riflettersi, e attraverso cui rileggere il senso ultimo dell’invenzione letteraria.
L’indovino che compare nell’Odissea, il profeta reso cieco da Giunone (o da Atena?) punito perché rivelava i segreti degli dei, è il protagonista di questa conversazione solitaria in cui Camilleri, meditando ad alta voce sulla cecità e sul Tempo, sulla memoria e sulla profezia, parlerà di sé e del suo viaggio nella vita e nella Storia.
Perché proprio Tiresia, l’indovino? Racconta Camilleri con la sua lentezza meravigliosa che Tiresia possiede il fascino dell’ambiguità, della doppiezza: è stato compiutamente sia donna, sia uomo. “Io racconto il destino di un protagonista letterario, che è stato esaltato e bistrattato: faccio il punto della situazione”. Tiresia è cieco come lo è diventato ultimamente Camilleri, e in questo elogio della cecità sembra volerci mettere a parte del suo “cambiamento” in cui riesce a trovarci del positivo, quasi si trattasse di un dono sopravvenuto e inatteso: “Appena ho iniziato a perdere la vista, ho acuito gli altri sensi. Ho sempre fumato 80 sigarette al giorno e, quando ancora ci vedevo, avevo perso il gusto degli odori, dei sapori. Quando gli occhi si sono spenti, sono ritornati tutti insieme! Anche il tatto mi fa impressione per quanto è sensibile. Tiresia vede il futuro da cieco: poteva non piacermi recitare un ruolo del genere?”
D’altronde Camilleri ha sempre scritto da regista, sub specie theatri, con il rumore di fondo della narrativa, ed è fuori di dubbio che abbia sempre presente la misura scenica e i suoi riferimenti durante il processo di scrittura. La presenza di citazioni velate o dichiarate da scrittori come De Filippo o Pirandello sono disseminate un po’ ovunque perché Camilleri non sa fare altrimenti: evidentemente fanno parte del suo inconscio letterario, della sua psiche di scrittore. Infine, la stessa scrittura come atto potrebbe essere letta come rappresentazione scenica. In un piccolo ed interessante scritto intitolato “Luogo di lavoro”, Manganelli usa lo stanzino e il palcoscenico come due modi di definire la condizione contraddittoria di chi scrive e dove la scrittura vi viene celebrata come una rappresentazione scenica e teatrale, condotta con gesti poveri e ripetitivi. Altri lavoratori sembrano maggiormente consapevoli della natura puramente rappresentativa dei loro gesti; lo scrittore invece è convinto della veridicità dei suoi movimenti ed è ignaro della loro vis teatrale:
“Sto scrivendo il testo che a qualcuno accadrà di leggere; e mi accorgo che questo mio scrivere non è, propriamente, scrivere, ma eseguire gesti e movimenti, variamente ritmati, in uno spazio delimitato; questo spazio poi dovrebbe, anzi lessicalmente è la mia scrivania, immersa nel consueto spaurito disordine, in una caotica vessazione; ma sarà bene che io mi renda conto che non tanto di scrivania si tratta, ma di palcoscenico, di spazio scenico, di luogo deputato ad eventi sostanzialmente teatrali, il teatro del lavoro. La scrittura è quindi per il consapevole Camilleri il mezzo a disposizione del suo essere il perfetto “tragediaturi” siciliano.
A chi gli domanda se si fosse mai aspettato il successo planetario di Montalbano, risponde: «Non cercavo il successo e mentre scrivevo il primo romanzo mi dissero: con la lingua che usi, chi vuoi che ti legga? Ora è tradotto in quasi quaranta paesi e la cosa è un po’ pesante. Non mi sono mai sentito un Simenon, un maratoneta che sforna romanzi a ripetizione con lo stesso personaggio. Sono al massimo un centometrista. E invece una ciliegia tira l’altra, da vent’anni. Sa una cosa? Non amo Montalbano. Non sono un ingrato, mi ha dato fama e denaro, ma se fosse meno ricattatore sarei più contento. Non è facile mantenere la vena creativa senza ripetersi». Eppure nessun personaggio rappresenta fortemente Camilleri quanto Montalbano. Montalbano è il teatrante ideale, è un uomo d’ingegno, dalla vasta cultura letteraria (si potrebbe compilare un ampio lavoro critico circa la “biblioteca” del commissario siciliano) e, cosa più importante, è un individuo che di continuo e in maniera criticamente costruttiva affronta le sue crisi personali (il passare degli anni, gli epifanici sogni).
Uomo di grande e ironica saggezza, Camilleri è scrittore amatissimo perché svela con semplicità ingenua il retroscena della vita di chi ha la fortuna di fare il lavoro che ama, la consapevolezza di essere un privilegiato. “Certo gli acciacchi avanzano, sono cieco e vabbè, qualche prezzo si deve pagare. Il cervello funziona, l’Alzheimer non mi preoccupa, lo temevo intorno ai 70 anni, ormai a 92 il pericolo è passato”.
Di questo monologo teatrale Camilleri ci dice che rappresenta per lui un sogno realizzato e folle, quello di tornare in palcoscenico dopo 70 anni; sarà accompagnato per mano da un bambino, per evitare che inciampi e questo, pare lo renda molto felice: ” meno male che sono cieco!”, è la sua battuta nuova, dopo quella con la quale chiude ogni intervista, discussione, o dialogo: “l’importante è non prendersi sul serio”.