Politica del rispetto e dipendenza democratica, una riflessione

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Come si possono, nelle società complesse come la nostra, caratterizzata da una grande varietà di tipi sociali la cui vita ci è sconosciuta e incomprensibile, immaginare i bisogni di chi ci è estraneo ed entrare in simpatia con lui senza limitarne l’autonomia?

Potrebbe soccorrerci nella risposta il rispetto come atto espressivo, e un ricordo musicale: l’eccezionale esecuzione di uno dei Lieder più famosi di Schubert, Erlkonig, da parte del cantante Fischer-Dieskau e del pianista Gerald Moore deriva dal fatto che i due artisti interpretano insieme la partitura musicale esaltando l’uno le capacità espressive dell’altro. Un concerto ben eseguito offre un esempio positivo del “carattere”, ovvero l’arte di trattare con rispetto il bisogno percepito di altri quando si agisce insieme. Con carattere s’intende la comunicazione di un individuo con gli altri attraverso “strumenti sociali” condivisi, attraverso l’interpretazione di una sorta di partitura musicale. Nella società le partiture musicali sono le leggi, i riti, i codici delle credenze religiose, le dottrine politiche, e quando i soggetti le interpretano bene, “suonano” strumenti sociali condivisi, potendo così entrare in contatto anche con chi è loro estraneo, mettere in atto rispetto e reciprocità. Proprio come i musicisti che s’impegnano per raggiungere un’esecuzione eccellente indipendentemente dai loro rapporti personali. Il “carattere” può essere dunque considerato il lato relazionale della personalità, la sua capacità di rapportarsi al mondo, superando l’idea che solo le relazioni de visu comportino coinvolgimento e sollecitino responsabilità.

Dalla semplice osservazione del nuovo riformismo liberale, delle sue politiche sociali improntate all’efficienza e alla minor spesa possibile, dove il “fattore umano” sembra non avere più alcuna rilevanza, nasce quindi una protesta silenziosa, suffragata dalla consapevolezza comune della sempre maggiore “personalizzazione” della diseguaglianza, ovvero della crescente colpevolizzazione di chiunque si trovi in condizioni di povertà e di dipendenza.

Le diverse forme e declinazioni assunte dal welfare state nel corso della storia si sono sempre scontrate con lo spettro della dipendenza riprodotta, e al tempo stesso condannata, dalle strutture e dalle burocrazie assistenziali e, in una vita quasi totalmente dipendente dallo Stato, è sempre stato, il problema con cui si sono confrontati gli ideatori stessi del welfare state, soprattutto quelli di formazione ed ispirazione socialdemocratica come Keynes e Beveridge. In particolare Keynes pensava a istituzioni di welfare che permettessero al tempo stesso protezione, sicurezza, ma anche forme di partecipazione degli individui alla definizione delle condizioni della loro dipendenza. Insomma, keynes aspirava ad una forma di “dipendenza democratica”.

Di fatto, quella dipendenza democratica, che suona più come un ossimoro che come un’utopia, non si è mai realizzata. L’assistenza pubblica ha infatti assunto ora le modalità della carità e della compassione, ora le più rigide forme del controllo e della istituzionalizzazione e, nei tempi più recenti, oscilla fra deleghe al volontariato e la semplice erogazione di denaro.

I destinatari del welfare sono stati e sono considerati come figli di un dio minore e quindi privati di ogni rispetto e di ogni dignità. Questo sentimento di umiliazione, questo dover passare necessariamente attraverso “riti di degradazione” è stato ben espresso nel film “La grande seduzione” da uno dei protagonisti, il quale si mantiene con gli assegni di disoccupazione: “Ogni mese non ritiri solo i soldi, ritiri anche la vergogna. I soldi non bastano per quindici giorni, ma la vergogna dura tutto il mese”. Assistiti dunque e non rispettati perché ricevere aiuto, essere dipendenti diviene il loro stigma. E forse è proprio da questo punto cruciale che bisognerebbe ripartire: dalla ridefinizione della nozione di dipendenza.

Riprendendo la metafora del concerto, nell’esecuzione di un brano musicale i singoli suonatori sono interdipendenti dalle capacità e dal talento di ciascuno, in un difficile equilibrio fra comprensione dell’altro e affermazione delle differenze individuali, fra dipendenza e autonomia. L’autonomia individuale si fonda sulla relazionalità piuttosto che sull’affermazione della propria autosufficienza e comporta la consapevolezza della necessità della dipendenza, se non altro per essere riconosciuti.

D’altronde, nella nostra vita tutti siamo al tempo stesso dipendenti dagli altri e autonomi, tutti attraversiamo continuamente fasi di dipendenza e forme diverse di dipendenza. L’autonomia individuale non è qualcosa che si acquista o si perde una volta per tutte, ma può essere continuamente rinnovata e ritrovata a seconda delle condizioni e delle pratiche sociali. In quest’ottica, l’aver bisogno dell’altro e degli altri, l’essere dipendenti non può e non deve essere valutato come una colpa individuale, non può e non deve essere pagato con la perdita dell’autostima e del riconoscimento sociale.

Il problema resta allora quello di scegliere le modalità di assistenza e di aiuto che considerino riconoscimento e rispetto come risorse fondamentali, come beni necessari, che mettano in condizione chi riceve forme di sostegno sociale di percepirsi come soggetto a pieno titolo, come attore della propria vita anziché come oggetto di compassione caritatevole o di disconoscimento.

Bisognerebbe consentire alle persone di partecipare più attivamente alle condizioni della loro stessa protezione, lasciando che intervengano nelle scelte “assistenziali” che li riguardano in un reale processo deliberativo. Solo così si può rafforzare la percezione di sé come soggetto autonomo pari agli altri e la percezione di essere parte di un insieme di interdipendenze.

L’amore di sé e la stima nascono dalla fiducia nelle proprie capacità personali, dalla percezione quotidiana che si è rispettati per quello che si è, e solo dal rispetto di sé d’altronde può nascere il rispetto verso l’altro di cui accettiamo la diversità così come questi accetta la nostra.

Basterebbe riflettere su come nelle società, in cui l’amore di sé non viene costruito collettivamente, né incoraggiato, si arrivi invece al “rispetto a somma zero”, dove ciascuno acquista stima di sé solo attraverso la negazione e il disconoscimento dell’altro. E in questa trappola del “rispetto a somma zero” restano invischiati soprattutto i gruppi sociali più deprivati i quali, proprio perché non rispettati né riconosciuti, cercano di riconquistare il rispetto di sé disprezzando chiunque non appartenga alla loro comunità e riproducendo così la propria marginalità.

La mancanza di rispetto, anche se meno aggressiva di un insulto diretto, può ferire in maniera altrettanto violenta. Non c’è insulto ma nemmeno riconoscimento: la persona coinvolta semplicemente non viene “vista” come essere umano pieno, la cui presenza conti qualcosa.

Quando una società tratta la gente in questo modo, accordando solo a pochi il riconoscimento, crea una carenza di rispetto, quasi come si trattasse di una sostanza troppo preziosa da far circolare. Al pari di altre carestie, anche questa è opera dell’uomo; ma a differenza del cibo, il rispetto non costa niente. Perché, allora, ne viene dispensato così poco?

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