Galeotto fu uno specchio e chi vi si specchiò a lungo con una domanda sottintesa: chi è il più fico del reame?
Il selfie nasce agli inizi del XX secolo, quando la granduchessa russa Anastasia Nikolaevna si fece il primo autoscatto davanti allo specchio con la sua Kodak Brownie, confessando in seguito l’emozione di quel momento, non del tutto consapevole di aver inaugurato una tendenza che poi avrebbe spopolato così tanto sul web. Il fatto che il primo selfie fu fatto davanti a uno specchio appare simbolico di quello che oggi, a parere di alcuni, domina imperante sul selfie: il narcisismo. Essere al contempo soggetto attivo e passivo della propria fotografia e condividerla sui social rappresenterebbe l’espressione e l’affermazione del proprio Io nel mondo virtuale. Già il fatto di mostrarsi in pubblico è qualcosa di narcisistico: nessuno posta una foto tanto per postare una foto, lo si fa per farsi fare i complimenti e aumentare così la propria autostima scatenando una gara a chi è il più fico con tutti i suoi pro e contro; se la foto genera commenti positivi, allora chi ha realizzato e postato quel selfie riceverà un aumento di autostima. Se al contrario genera commenti negativi o viene ignorata, l’autostima del soggetto cala e il primo pensiero che viene alla mente è quello di voler creare un’altra immagine di sé, possibilmente migliore.
Secondo alcuni, di conseguenza, il selfie certifica un senso di solitudine ma anche e soprattutto un senso di non accettazione di sé stessi.
Un dato certo è che sui selfie si continua a produrre giornalismo, letteratura e cinema e sicuramente si continuerà a farlo. Quello che per i più superficiali è solo un fenomeno passeggero e narcisistico è stato negli ultimi mesi sviscerato da giornalisti, sociologi, filosofi, economisti, psicologi, neuroscienziati e avventori di bar alla ricerca di un motivo che spieghi ragionevolmente l’impulso che fa afferrare uno smartphone anche nelle situazioni più improbabili e imbarazzanti, puntarlo verso la propria faccia e toccarlo per fotografare noi stessi in un dato luogo e in un preciso istante: il selfie è qualcosa di compulsivo, ci si fotografa in bagno, a letto appena svegli o prima di dormire, alle feste, allo stadio, per strada, in coda alla posta, in sala d’attesa, all’aperitivo con le amiche, anche mentre si fa sesso, basta cercare: #sexselfie su Twitter e Instagram; di più, gira sul web una gallery aggiornatissima e tragica con scatti beffardamente felici di ragazzi e ragazze sorridenti prima di cadere da un palazzo, uscire di strada con l’auto, tuffarsi per morire subito dopo in mare.
Secondo Aaron Balick, esperto in psicodinamica dei social network, la storia è più intricata di quanto appaia. Non solo narcisismo, dietro agli autoscatti postati sul web piuttosto ci sarebbe un modo nuovo di raccontare se stessi e un antico desiderio. Che cosa spinge dunque tutti noi, ma soprattutto la generazione dei nati dal 1980 in poi, a inondare i social network di selfie? Perché uno dei primi pensieri che abbiamo è quello di farci un selfie? Cosa ci aspettiamo ci torni indietro: approvazione, sicurezza in noi stessi, complimenti? Certamente si, ma non è tutto: ricordiamo i tempi in cui ai personaggi famosi si chiedeva l’autografo su un pezzo di carta? Difficilmente si facevano domande o si restava a chiacchierare con loro salvo poi correre a casa a incollare l’autografo sul diario o appenderlo in stanza per farlo vedere agli amici suscitando in loro invidia e ammirazione.
L’economista comportamentale Dan Ariely sostiene che le cinque ragioni psicologiche per spiegare il fenomeno dei selfie siano: a) ci serve a fermare l’attimo; b) ci permette di continuare a vivere il momento senza perdere tempo a chiedere a qualcuno altro di fotografarci; c) condividiamo l’esperienza del momento con altri; d) ci preoccupiamo troppo del nostro aspetto; e) lo fanno tutti.
Chi oggi ha dai 30 anni in giù è cresciuto potendo raccontarsi quotidianamente in “un diario generazionale condiviso fatto di post, tweet, mi piace, commenti e foto”, spiega Federico Capeci, autore del libro “Generazione 2.0” pubblicato da Franco Angeli. “Per loro è normale parlare di sé in quel modo, e a differenza dei giovani prima di loro, taciturni e solitari, questi parlano molto di più. Pure troppo”. E aggiunge: “Il selfie come lo intendiamo oggi è nato quando Steve Jobs ha messo sui suoi smartphone la fotocamera frontale: prima non era comune farsi autoscatti da soli con la macchina fotografica”.
Parlando di selfie bisogna infatti separare i cosiddetti nativi digitali, nati e cresciuti in un contesto in cui tecnologia e connessione online erano già alla portata di tutti, e gli immigrati digitali, over 35 cresciuti in un mondo analogico diventato digitale quando loro erano già grandi: se un adulto si fa un selfie spesso mette in primo piano se stesso, i giovani invece tendono a dare più spazio al contesto. E’ il passaggio dal narcisismo alla testimonianza. Non è più solo un gesto solitario, e non può essere fatto da una terza persona, perché essere al contempo attori e autori della fotografia ha un valore. Un esempio potrebbe essere costituito dal diverso valore della foto stessa: se anche io fotografassi il più bel paesaggio marino del mondo e inviassi la foto a un amico il mio scatto non varrebbe molto, online si trovano immagini più nitide e migliori dello stesso paesaggio fotografato da me. Una foto in cui ci sono io, invece, è per forza diversa, unica. Volendo fare un’analogia, e ci ha pensato il filosofo pragmatista Charles S. Peirce, un selfie è come un obelisco, facendoci notare che di per sé un obelisco non serve a niente, è inutile, eppure tutte le grandi potenze li hanno costruiti e messi nelle piazze. Come mai? Per dire al popolo io esisto. Narcisismo? Senza dubbio ma quale generazione al mondo è stata priva di vanità?
Un selfie è un’àncora visiva – dice ancora qualcun altro – Un urlo personale che permette una relazione di un momento in un mondo di solitudine. A chi pensiamo mentre scattiamo un selfie? Cosa cerchiamo? Che cosa ci resta? Un urlo di presenza alla ricerca di un rapporto. Farsi un selfie è normale oggi quanto lo era mandare un sms.
Ma c’è persino chi lo considera il più impolitico e capitalistico dei gesti: così è il selfie visto da Salvatore Bravo, autore di numerosi saggi, che scrive:
“La doxa, ovvero l’opinione, descritta da Hannah Arendt in “Socrate”, in quanto splendore, apparire agli altri, rendersi visibili agli altri con la propria storia, con la fragilità dell’essere umano è”, rispetto al selfie, “un apparire che mette in moto le energie cognitive comunitarie per l’azione, per la trasformazione dei limiti e delle contraddizioni operanti. La doxa è quindi il vissuto personale che si rende pubblico, una comunità politica in cui l’esserci di tutti è contemplato come possibile reale. Per i Greci, sostenere una propria opinione faceva parte della capacità di mostrarsi, di essere visti e sentiti dagli altri. Questo era il vero e grande privilegio legato alla vita pubblica, un privilegio che veniva a mancare nella dimensione privata della sfera domestica, in cui nessuno può vederci o sentirci”. Il selfie sarebbe quindi la negazione della doxa, il ritorno ad un privato in cui non si è riconosciuti in quanto esseri umani con una storia, rappresenterebbe una cultura dello spettacolo organica al silenzio del logos: ecco che la Filosofia dovrebbe farsi carico di riportare la sfera pubblica dove regna lo spazio astratto del consumismo, avrebbe il compito di svelare le contraddizioni attraverso le parole sepolte dal selfie. La libertà, per Bravo, è relazione con sé e con gli altri, in tal modo è in grado di donare alla comunità esseri umani degni di questo nome: gli effetti dell’incultura del selfie ci vengono incontro, ma spesso non trovano pensatori, uomini e donne pronti a confrontarsi con gli effetti di tale incultura.
”Oggi, poiché ne ha la libertà e la possibilità, la giovinezza non è più incatenata dalla tradizione. Ma che cosa farsene di questa libertà, di questa nuova erranza? Bisogna scoprire ciò di cui si è capaci, per quel che riguarda una vera vita creatrice ed intensa, bisogna risalire verso la propria capacità.”
Le analisi sul fenomeno sono tante, più o meno approfondite e più o meno accettabili, e mentre i selfie inondano la nostra vita quotidiana continuiamo a chiedercene ragione e valore, davanti allo specchio solitario e individualista.
foto di Francesco Elia