Comincia il regno di Miccichè. Ma lo scettro è in mano a Musumeci. Sarà coabitazione inquieta

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Raccontano che Gianfranco Miccichè abbia scelto da grande di risalire sul soglio più alto del Parlamento siciliano perché non vuole prendere l’aereo per Roma. Avrebbe potuto aspirare ad un incarico ministeriale nella nuova legislatura nazionale, infatti. Che sia vero o meno ha modesta rilevanza; nostro avviso ha avuto il suo peso quella legislatura “strozzata” a metà del percorso, appena due anni, nella quale Miccichè resse le sorti dell’Assemblea regionale. Gli sarebbe rimasto, come dire, lo spinno: gli avevano rubato il giocattolo quando cominciava ad assaporarne il piacere.

Non è che siano stati quei due anni rose e fiori, tutt’altro. Gianfranco Miccichè è uno scalatore virtuale,  non s’inerpica allo scopo di raggiungere la vetta, ma per il piacere di piantare chiodi ed allacciare corde. Gli piace salire piuttosto che raggiungere la cima.

Nei due anni di presidenza, infatti, il suo bersaglio preferito fu Totò Cuffaro, allora Presidente della Regione, sulla graticola per via dei guai giudiziari. Gianfranco, Presidente dell’Ars, trattò l’inquilino di Palazzo d’Orleans come un rivale, e fu perciò sospettato di stare seguendo la sua vocazione, arrivare a Palazzo d’Orleans. Non è che pianificasse la meta e studiasse il modo per rendere la vita difficile a Totò, aveva un istinto belligerante, un bisogno insopprimibile di far sapere di esserci, sempre e comunque. Così divenne il contraltare di Totò Cuffaro. E’ rimasto negli annali della storia politica siciliana la sua riflessione sul “cuffarismo”, vizio antico dei politicanti isolani. La originalità del concetto sta nella netta separazione che Gianfranco Miccichè operava, usando la scimitarra, fra cuffarismo e Totò Cuffaro. Il cuffarismo, spiegò, è una turpitudine, ma Cuffaro è una brava persona; Cuffaro l’ha solo adottato perché non sarebbe stato possibile altrimenti. Voleva forse dire che il clientelismo, il familismo, le cattive compagnie dei politicanti non sono vizi di Totò, ma della classe dirigente isolana. Il fatto è che fu impossibile per i comuni mortali apprendere che il cuffarismo prescindeva da Cuffaro, compagno di cordata per Miccichè.

Spiegando e rispiegando il concetto, il Presidente dell’Ars si fece la fama, senza volerlo, di avversario trinariciuto di Totò Cuffaro, che aveva i suoi guai e avrebbe meritato dall’alleato solidarietà e condivisione. Fu probabilmente questa inquieta presenza nella Torre Pisana, luogo degli uffici del Presidente dell’Ars, che nei giorni che precedettero la fine anticipata della legislatura, montò negli ottantanove deputati regionali, una sorta di rancorosa attesa degli eventi, che fece appunto di Miccichè il capro espiatorio della sventurata conclusione della legislatura, danno economico ingente per i novanta parlamentari regionali.

La tensione si tagliava a fette con l’approssimarsi della chiusura e solo la preveggenza di Antonello Cracolici – secondo una leggenda metropolitana – avrebbe impedito al Presidente dell’Ars, pronto a scendere in Aula per suonare la campana a morto del mandato parlamentare, di subire una punizione corporale.

Insomma, fu una fine ingloriosa, come se calato il sipario la platea avesse lanciato uova e pomodori.

Naturalmente le responsabilità di Gianfranco Miccichè erano risibili, forse non ne aveva per niente, perché fu il corso della giustizia a provocare le dimissioni del Presidente della Regione e la conseguente sospensione della legislatura. Ma le cronache del tempo, deputate alla ricostruzione della verità, raccontarono la storia diversamente. Non è la prima volta che accade nel Palazzo che fu dei Re. Guglielmo il Malo, precursore alla lontana, molto lontana, di Gianfranco Miccichè, non era affatto una mala persona, ma si fece questa nomina perché spogliò i baroni di alcuni privilegi. Mentre Guglielmo il Buono, invece, era un sovrano dai metodi spicci e affatto misericordiosi verso il popolo.

Il ricordo dei Guglielmi non assolve dalla perniciosa inquietudine Gianfranco Miccichè, ma suggerisce una nuova chiave di lettura sul personaggio. Quale? La leggerezza del potere, pur cercato e ambito. Raccontano che sia la pizza, nelle ore notturne, non altro, a risvegliare l’interesse per la vita in Gianfranco Miccichè. Il resto sarebbe solo scena, istinto, naturale disposizione d’animo. Nello Musumeci è avvertito.

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