Le mafie “allargano il proprio raggio d’azione spostandosi fisicamente (singoli, gruppi, famiglie ecc.) o reinvestendo altrove i capitali illecitamente accumulati. Sebbene nelle aree di nuovo insediamento sia tutt’oggi ravvisabile una certa difficoltà nel riconoscere la criminalità mafiosa, sia in sede giudiziaria che in seno all’opinione pubblica, e nonostante alcuni osservatori tendano a valutare tutt’ora il fenomeno come ”non esportabile”, ai fini della comprensione e del contrasto appare oramai acclarato considerare le mafie come organizzazioni contemporaneamente «locali» ed «extra-locali». In altre parole, le mafie trattengono una base di legittimazione sociale e politica in un dato territorio, ma appaiono contestualmente vocate all’espansione del proprio raggio d’azione”. “Nei mercati- continua il presidente Bindi- le mafie possono ricoprire anche ruoli violenti per il presidio o il controllo delle attività. Tuttavia, il ricorso alla violenza e all’intimidazione tende a smorzarsi per lasciare il passo alla costruzione di legami di cointeressenza che coinvolgono imprese, pubblici funzionari, categorie professionali, politici e altri attori. Questo aspetto -rileva il documento- è centrale nel definire l’ultima dimensione che connota le trasformazioni delle mafie, collocandole all’interno dell’«area grigia», intesa come lo spazio relazionale al confine tra sfera legale e illegale, laddove si costituiscono intrecci criminali con diversi e cangianti livelli di contiguità e complicità tra soggetti eterogenei per interessi, ruoli e competenze. Nella prospettiva delineata anche in alcuni studi scientifici, i mafiosi non sono altro rispetto all’area grigia, ma si collocano al suo interno”.
Così intesa, “l’area grigia non è prodotta da una estensione dell’area illegale in quella legale, quanto da una commistione tra le due aree, ovvero dall’esistenza di confini mobili, opachi e porosi tra lecito e illecito. Alla luce di recenti esperienze di ricerca e di filoni di studio specialmente in ambito sociologico, emerge che sia le prassi intimidatorie che le prassi collusivo-corruttive alimentano un tessuto di cointeressenze in cui risiede il «capitale sociale delle mafie», base della genesi e della riproduzione nelle aree di radicamento originario, ma anche della loro mobilità ed espansione in altri territori”.e mafie “allargano il proprio raggio d’azione spostandosi fisicamente (singoli, gruppi, famiglie ecc.) o reinvestendo altrove i capitali illecitamente accumulati. Sebbene nelle aree di nuovo insediamento sia tutt’oggi ravvisabile una certa difficoltà nel riconoscere la criminalità mafiosa, sia in sede giudiziaria che in seno all’opinione pubblica, e nonostante alcuni osservatori tendano a valutare tutt’ora il fenomeno come ”non esportabile”, ai fini della comprensione e del contrasto appare oramai acclarato considerare le mafie come organizzazioni contemporaneamente «locali» ed «extra-locali». In altre parole, le mafie trattengono una base di legittimazione sociale e politica in un dato territorio, ma appaiono contestualmente vocate all’espansione del proprio raggio d’azione”. E’ quanto sottolinea la Relazione finale della presidente della Commissione parlamentare Antimafia Rosy Bindi.
“Nei mercati le mafie possono ricoprire anche ruoli violenti per il presidio o il controllo delle attività. Tuttavia, il ricorso alla violenza e all’intimidazione tende a smorzarsi per lasciare il passo alla costruzione di legami di cointeressenza che coinvolgono imprese, pubblici funzionari, categorie professionali, politici e altri attori. Questo aspetto -rileva il documento- è centrale nel definire l’ultima dimensione che connota le trasformazioni delle mafie, collocandole all’interno dell’«area grigia», intesa come lo spazio relazionale al confine tra sfera legale e illegale, laddove si costituiscono intrecci criminali con diversi e cangianti livelli di contiguità e complicità tra soggetti eterogenei per interessi, ruoli e competenze. Nella prospettiva delineata anche in alcuni studi scientifici, i mafiosi non sono altro rispetto all’area grigia, ma si collocano al suo interno”. Così intesa, “l’area grigia non è prodotta da una estensione dell’area illegale in quella legale, quanto da una commistione tra le due aree, ovvero dall’esistenza di confini mobili, opachi e porosi tra lecito e illecito. Alla luce di recenti esperienze di ricerca e di filoni di studio specialmente in ambito sociologico, emerge che sia le prassi intimidatorie che le prassi collusivo-corruttive alimentano un tessuto di cointeressenze in cui risiede il «capitale sociale delle mafie», base della genesi e della riproduzione nelle aree di radicamento originario, ma anche della loro mobilità ed espansione in altri territori”.Sintetizzando -si legge nella Relazione- le quattro
principali dimensioni di questo fenomeno possono essere così
enunciate: a) progressivo allargamento del raggio d’azione delle mafiein territori diversi da quelli di origine storica; b) assunzione di profili organizzativi più flessibili, spesso reticolari, con unità dislocate su territori anche lontani e dotate di autonomia decisionale; c) più accentuata vocazione imprenditoriale espressa nell’economia legale; d) mutamento nei rapporti intessuti con i contesti sociali e con i territori, dove al generale ridimensionamentodei tratti più esplicitamente connessi all’intimidazione violenta si
affianca la promozione di relazioni di collusione e complicità con attori della cosiddetta «area grigia» (imprenditori, professionisti, politici, burocrati e altri). Emblematico in tal senso è il reinvestimento dei proventi illeciti nell’economia pubblica, dove le mafie prediligono il ricorso sistematico alla corruzione per facilitare l’infiltrazione negli appalti e nei sub-appalti”.
La “fase di sommersione” di cosa nostra “seguita alla sconfitta della mafia corleonese, eversiva e stragista, e all’assenza di un capo attivo, che si è tradotta in assenza di una strategia unitaria, non hanno intaccato le potenzialità criminali di cosa nostra, che nonostante l’azione incessante delle forze dell’ordine e della magistratura mostra una straordinaria capacità di rigenerazione”. E’ quanto si legge nella Relazione finale.
“Cosa nostra è vitale in ciascuna provincia siciliana. In questi anni l’organizzazione ha mantenuto il controllo del territorio e gode ancora di ampio consenso, ed esercita tuttora largamente la sua capacità di intimidazione alla quale ancora corrisponde, di converso, il silenzio delle vittime. La morte di Totò Riina costituisce paradossalmente un ulteriore elemento attuale di forza. Cosa nostra -spiega la Relazione- è infatti libera di ridarsi un organismo decisionale centrale, e quindi una strategia comune, finora ostacolata dall’esistenza di un capo che, in carcere a vita al 41-bis, né poteva comandare né poteva essere sostituito. Andrà perciò attentamente monitorata la fase di transizione che si è formalmente aperta e che probabilmente subirà un’accelerazione a breve”.
Un’attenzione particolare anche sulla N’drangheta. Anche se alcune aree sono risultate più accoglienti e attrattive di altre, nessun territorio può essere più considerato immune” dal condizionamento della ‘ndrangheta. Si tratta di un “movimento profondo e uniforme che interessa la maggioranza delle provincie settentrionali, con una particolare intensità in Lombardia, e che è stato favorito fino a tempi recenti da diffusi atteggiamenti di sottovalutazione e rimozione”.
E’ la Commissione parlamentare antimafia a sottolineare, nella Relazione finale, che “la colonizzazione ‘ndranghetista si è affermata a macchia di leopardo con una particolare predilezione per i comuni minori, che per molte ragioni (i piccoli centri della Calabria sono le roccaforti delle ‘ndrine, è più facile mimetizzarsi e più bassa la soglia di attenzione delle popolazioni) sono risultati più facilmente espugnabili. In questa avanzata i clan calabresi non hanno seguito la legge delle metropoli del riciclaggio ma quella che nella relazione viene chiama la ”legge dei fortini”. Una volta conquistati, i piccoli centri svolgono una funzione di capisaldi strategici distribuiti sul territorio e un potente strumento di consolidamento degli interessi mafiosi e di radicamento stabile”. “Non è casuale che siano proprio i comuni più piccoli quelli in cui si sono verificati i più numerosi attacchi alle libertà politiche dopo quelli alle libertà economiche. La violenza a bassa intensità, ossia contro le cose, che non esclude le intimidazioni alle persone, è di lunga data e ancora frequente. E oggi -si legge nel documento- colpisce sempre più amministratori e consiglieri comunali scomodi. La presenza pervasiva dei clan nel tessuto produttivo delle aree più dinamiche e ricche del Paese mostra una notevole flessibilità e capacità di adattamento, riuscendo a trarre vantaggi sia dalle fasi di espansione che da quelle di recessione economica”.
La N’drangheta è la mafia più potente e colonizza a macchia di leopardo. “Le mafie sanno sfruttare l’abbondanza di risorse
traendo vantaggi da importanti investimenti o eventi pubblici come Expo 2015 o fare leva sulla crisi economica per ampliare la base sociale delle vittime delle estorsioni e dell’usura. Possono fare affari con servizi pubblici evoluti, come la sanità o condizionare l’imprenditoria privata. Non c’è settore, dalle costruzioni al turismo, dal commercio alla ristorazione, dal gioco d’azzardo legale allo sport, in cui le imprese mafiose non abbiano investito”.
Il metodo mafioso “non viene utilizzato solo per alterare la
concorrenza ed inquinare l’economia legale. Numerose inchieste hanno in vari gradi coinvolto le amministrazioni locali, segnalando preoccupanti episodi di corruttibilità in seno alla pubblica amministrazione e alla politica, con le quali le mafie si relazionano con estrema spregiudicatezza e senza fare differenze tra schieramenti e partiti politici, come confermano anche i diversi gli scioglimenti che negli ultimi anni hanno riguardato i comuni del Nord: Bordighera e
Ventimiglia (poi entrambi annullati dalla giustiziaamministrativa) in provincia di Imperia nel 2011, Leinì e Rivarolo Canavese (TO) nel 2012, Sedriano (MI) nel 2013, Brescello (RE) nel 2016 e, infine, Lavagna (GE) nel 2017”.A lungo sottovalutata e considerata a torto una mafia subalterna e arretrata, la ‘ndrangheta “è oggi l’organizzazione criminale più ricca, agguerrita e potente. Profondamente radicata in Calabria, su cui esercita un asfissiante controllo del territorio e delle attività economiche e della pubblica amministrazione, si è insediata in tutte le regioni del paese, anche se con gradi di penetrazione differenti, e mostra anche un marcato profilo transnazionale”.
Leader mondiale nel traffico di stupefacenti, “ha rapporti privilegiati, se non addirittura esclusivi, con i principali cartelli di narcotrafficanti del Centro e Sud America, ed è l’organizzazione che meglio ha saputo sfruttare le opportunità della globalizzazione.
E poi non bisogna sottovalutare la Camorra. L’intensa attività repressiva degli ultimi anni, che ha visto il declino di clan storici come quello dei casalesi, “ha accentuato la frammentazione e atomizzazione della camorra ma non ne ha intaccato l’aggressività. Una realtà criminale, difficile da inquadrare in una definizione unitaria, che mai come oggi appare forte e dinamica, con un esteso controllo del territorio regionale, uno stretto rapporto con la politica e le istituzioni di alcune aree, una vasta proiezione nazionale e internazionale, dove riveste un ruolo di primo piano nel mercato mondiale degli stupefacenti e nelle reti di distribuzione”. E’ la Relazione del presidente della Commissione parlamentare Antimafia Rosy Bindi a sottolineare il fenomeno “delle bande giovanili ormai sempre più diffuse e pericolosamente attive, soprattutto a Napoli, nella ricerca di un’ascesa criminale dentro i clan più strutturati. Anche le camorre hanno mostrato un processo evolutivo verso una più accentuata vocazione imprenditoriale”.
La relazione descrive poi ampiamente l’evoluzione delle mafie pugliesi, sviluppando l’analisi “sulle mafie territoriali plurali che, in Puglia, vede da un estremo all’altro della regione ciò che resta della sacra corona unita, ma anche della mafia barese, con i sua spiccata somiglianza con la camorra napoletana, e soprattutto le violente mafie foggiane e garganiche, che in questa fase rappresento per la loro ferocia l’elemento di maggiore pericolosità, oltre che metafora della lunga sottovalutazione che ha consentito loro di crescere”. In un momento di poca credibilità nel Paese, bisogna rilanciare “l’antimafia sociale”. Nel contrasto alla mafia è necessario rilanciare “l’antimafia sociale” un “movimento prezioso e insostituibile nella battaglia contro le organizzazioni mafiose” che però è stato “attraversato da sbandamenti e difficoltà” come dimostrano “diversi episodi di cronaca giudiziaria che hanno coinvolto simboli dell’antimafia”. E’ quanto sottolinea la presidente della commissione Antimafia, Rosy Bindi, nella Relazione conclusiva sull’attività svolta durante la legislatura, presentata al Senato, negli ultimi venti anni si è “determinato un importante ribaltamento di prospettiva che ha trasformato l’antimafia da fenomeno minoritario, circoscritto alla Sicilia e alla Campania, circondato anche in quelle regioni da forti diffidenze e ostilità, in un valore civile appassionante che da Sud a Nord ha raccolto una crescente approvazione”, rileva la presidente della commissione. “Il movimento è cresciuto con grande vivacità, in forme magmatiche e plurali, molto articolate sia sul piano nazionale che regionale” ma “accanto ad associazioni di tradizione ed esperienza consolidata”, denuncia la Relazione “si sono moltiplicate realtà associative estemporanee e dalle capacità operative più incerte”.
L’antimafia, pertanto, “è diventata un marchio di successo di cui si sono appropriati anche personaggi discutibili, usato nella lotta politica per screditare gli avversari, per fare carriere e ottenere riconoscimenti pubblici. Persino i mafiosi ne hanno approfittato per occultare i loro affari sotto il manto di una finta opposizione alla mafia o per allontanare le attenzioni investigative sfruttando l’apparente battaglia contro l’illegalità”.
Nella complessità della relazione, la presidente Bindi ha speso diverse parole sulla verità ancora nascosta delle stragi del 92′. “Il 2018 si è aperto con il 70° anniversario dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, il primo e più completo codice antimafia del paese, che non potrà dirsi pienamente attuata, nei suoi valori fondanti di democrazia e libertà, se non sarà fatta piena luce sulle stragi e sui delitti a carattere politico-mafioso del 1992-1993”. E’ quanto evidenzia un passaggio della relazione finale della presidente della Commissione antimafia, Rosy Bindi, che sottolinea come la ricerca della verità si debba spostare “dal terreno giudiziario a quello più politico e storico”.
“Il complesso iter giudiziario sulla stagione delle stragi, largamente insoddisfacente per appagare la sete di verità su quelle drammatiche vicende, è ancora incompleto: in questi giorni è infatti attesa la pubblicazione delle motivazioni della sentenza sul processo Borsellino quater, celebratosi a Caltanissetta – ricorda la Relazione – Tuttavia il tempo trascorso, la scomparsa di molti protagonisti, gli istituti giuridici del giudicato e della prescrizione, impongono un progressivo spostamento della ricerca della verità dal terreno giudiziario a quello più politico e storico”. giudizio della commissione “rimane infatti il dubbio che una lunga
scia di sangue unisca politicamente via Fani a via D’Amelio, passando per tanti altri luoghi, in Sicilia e lungo la penisola. Le parole di Giovanni Falcone sulle ‘menti raffinatissime’ che ‘tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi’ sono in realtà domande a cui la politica non può rinunciare a dare una risposta soddisfacente”.
(/AdnKronos)