“Congelare” dolore e memoria: Gibellina, il più grande esperimento di Land Art nel mondo

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A Gibellina nella valle del Belice, provincia di Trapani, dopo il devastante terremoto di 50 anni fa, numerosi artisti e architetti italiani furono pronti a regalare le loro opere a quel territorio ferito, da Consagra a Pomodoro, da Quaroni a Schifano, da Cascella a Rotella fino a Burri con il suo Grande Cretto, e contribuirono con le loro opere a costruire uno dei più vasti e interessanti esperimenti di land art nel mondo. Un progetto utopico e ciclopico di città ideale dove l’arte è al servizio del territorio per creare bellezza e far rinascere la speranza in un angolo dell’Isola massacrato dal terremoto, e da un’errata ricostruzione. Un progetto di grande potenza salvifica partorito da uno degli ultimi amministratori visionari, il sindaco Corrao.

Tutto inizia in una notte d’inverno del gennaio 1968 quando una bomba tellurica frantuma uomini, case e cose della Valle del Belice, trasformando Gibellina, Poggioreale, Salaparuta e Montevago, epicentro della tragedia, in un buco nero di morte e macerie: duecentonovantasei persone muoiono, mille rimangono ferite e altre centomila vagano per decenni fra tende e containers.

Partono con lentezza tutta siciliana i lavori di ricostruzione, i centri urbani distrutti sono ricomposti altrove con una pianificazione imposta dall’alto e con i grandi appalti, dove la mafia penetra liberamente, che interpretano il territorio a loro uso e consumo realizzando opere faraoniche, per la maggior parte inutili alle comunità. Quando comprende che la nuova Gibellina, costruita a circa 20 chilometri dal vecchio nucleo, è solo uno spazio vuoto e amorfo di abitazioni e opere pubbliche, il sindaco Ludovico Corrao, avvocato e senatore, chiede aiuto all’arte, l’unica che, a suo avviso, possa restituire al paese un’anima bella e umana atta a consolare i cittadini cui il sisma ha rubato affetti, storia, ricordi, memoria: è una vera e propria “chiamata alle armi” quella di Corrao il quale, ripetendo a tutti che «il terremoto fu morte apparente», vuole trasformare il suo paese in un laboratorio a cielo aperto dove inventare, sperimentare, ricomporre. Gli rispondono decine di artisti, letterati e architetti di fama internazionale come Mario Schifano, Andrea Cascella, Pietro Consagra, Mimmo Paladino, Franco Purini, Arnaldo Pomodoro, Carla Accardi, Mimmo Rotella e Alberto Burri.

Di quest’ultimo è l’intervento più sconvolgente: il Grande Cretto di Gibellina, un catafalco ritagliato sulle macerie della cittadina con un dedalo di vie, slarghi e piazzette, il cui scopo, secondo il maestro, è «raccontare il dolore a chi non c’era e non dimenticare». La coltre di cemento originariamente di un bianco sfavillante, spessa un metro e cinquanta, si deve estendere, secondo le intenzioni di Burri, per circa dieci ettari.

Sui giornali che si occupano di arte territoriale, si può leggere la genesi dell’opera raccontata dallo stesso Burri: «Andammo a Gibellina con l’architetto Zanmatti, il quale era stato incaricato dal sindaco di occuparsi della cosa. Quando andai a visitare il posto, in Sicilia, il paese nuovo era stato quasi ultimato ed era pieno di opere. Qui non ci faccio niente di sicuro, dissi subito, andiamo a vedere dove sorgeva il vecchio paese. Era quasi a venti chilometri. Ne rimasi veramente colpito. Mi veniva quasi da piangere e subito mi venne l’idea: ecco, io qui sento che potrei fare qualcosa. Io farei così: compattiamo le macerie che tanto sono un problema per tutti, le armiamo per bene, e con il cemento facciamo un immenso cretto bianco, così che resti perenne ricordo di questo avvenimento».

Burri progettò un gigantesco monumento della morte che ripercorre le vie e vicoli della vecchia città: dall’alto l’opera appare come una serie di fratture di cemento sul terreno, il cui valore artistico risiede nel congelamento della memoria storica di un paese. Ogni fenditura è larga dai due ai tre metri, mentre i blocchi sono alti circa un metro e sessanta e ha una superficie di circa 8000 metri quadrati, facendone una delle opere d’arte contemporanea più estese al mondo. A circa 350 metri dall’opera, è possibile vedere anche i resti dei ruderi di Gibellina. È visitabile percorrendo la Strada statale 119 di Gibellina nel tratto che interseca la riserva naturale integrale Grotta di Santa Ninfa, tra l’omonima cittadina e il paese di Salaparuta, oppure venendo dall’Autostrada A29 in direzione Mazara del Vallo. L’opera venne realizzata parzialmente, e fu completata solo nel 2015.

Da allora sono passati cinquant’anni e, tra i numerosi eventi organizzati per ricordare l’anniversario del terremoto del Belice, il fotografo Aurelio Amendola, con l’analista e saggista Massimo Recalcati e Magonza Editore, hanno realizzato un libro sul Grande Cretto di Gibellina, omaggio alla grandezza dell’artista e dell’uomo che, realizzando un “calco” della violenza tellurica – il Grande Cretto –, pone le condizioni di un silenzioso e perpetuo ricordo di un topos e di una identità, creando un’inedita coincidenza fra “il luogo” – ridotto a materie straziate, lacerate – e “l’opera d’arte”, simbolo sconvolgente di Storia Umana.

“Il Cretto di Gibellina di Burri” scrive Recalcati, “non è solo un gesto umanissimo di pietas. Non si limita a commemorare poeticamente una tragedia, mostra semmai il valore profondo che accompagna l’azione dell’arte in quanto tale: la morte non è l’ultima parola sulla vita, la forma dell’opera salva il mondo dal puro orrore. Dalle Macerie. Stradine dissestate, collinette sinuose di campi gialli e verdi punteggiati qua e là da fontanili e casali. Il percorso lungo, tortuoso, drammatico e pittorico che porta al Cretto, fa da cornice ad una delle opere di landscape art più grandi al mondo, nella quale è racchiuso il profondo dolore di un paese totalmente raso al suolo: Gibellina”.

Esattamente come un sudario, il Cretto riporta le forme del corpo che avvolge. Le fessure sagomate dal cemento dell’opera ripercorrono le strade e le piazze della vecchia Gibellina, congelandone per sempre non solo la forma, ma anche la memoria. Il monumento cancella il passato e la memoria di una città scomparsa, ma impone un silenzio armonico e trasporta il visitatore in un’esperienza metafisica senza eguali. La differenza tra parte nuova e vecchia potrebbe essere, metaforicamente, considerata come la volontà incontrastabile della natura di riappropriarsi di un terreno da lei preteso tramite il sisma. Sarebbe diritto di noi siciliani, sennò, chiederci: perché, prima della costruzione della parte mancante, non è stata effettuata la manutenzione dell’esistente? Una vecchia quanto vana domanda.

Sulla facciata di un edificio abbandonato di fronte al Cretto sono impresse le parole dell’ex sindaco Ludovico Corrao: “Cosa sarebbe l’uomo senza il soffio rigeneratore dell’arte?”

“Quando abbiamo visto spuntare questi pupi – racconta Michele Plaia, agricoltore in pensione di 75 anni – pensavamo che fossero delle cose inutili. Venivano i turisti e ci chiedevano cosa fossero ma noi non lo sapevamo.” (…) “Corrao ha voluto questa città e in molti non l’hanno capita – gli fa eco il figlio Nino – ma questa è la nostra città. Mia ma anche di mio padre.”

Anche la chiesa edificata dopo il terremoto ha modificato il modo di vivere dei gibellinesi. Il paese ha riavuto un luogo di culto solo quattro anni fa, dopo quarant’anni di attesa. E se nella città vecchia di chiese ce ne erano sette, una per ogni congregazione, in quella nuova ce ne sono solo due: San Giuseppe, costruita dalla congregazione più ricca, e la Chiesa Madre, progettata da Ludovico Quaroni e finanziata dalla regione. Gli abitanti l’hanno subito ribattezzata la “chiesa palla”, per la sfera bianca che la sormonta. La domenica vanno tutti a messa lì.

La nostalgia per il passato, sempre presente in paese, sfiora soltanto il Cretto di Alberto Burri che ancora oggi divide la popolazione tra chi non l’ha mai accettata e chi la vede come una tomba della città distrutta. “ Noi giovani non possiamo capire cosa provano quelli che ci hanno vissuto”, spiega Daniele Balsamo, insegnante di 41 anni. (…) “La nuova generazione frequenta poco il Cretto e la maggior parte ne parla più come di un luogo turistico che non di memoria. Gibellina è una città senza un centro, un enorme labirinto senz’anima”.

Quando gli urbanisti ne disegnarono il progetto parlavano di una città a forma di farfalla. A distanza di molti anni gli abitanti della vecchia e della nuova generazione raccontano come quella farfalla è rimasta soffocata dalle sue stesse ali: come dire che, malgrado i tentativi e la compartecipazione emotiva degli artisti, un dolore così grande non si può “congelare” e convive, di generazione in generazione, con la sua ferita aperta e sanguinante.

in copertina Cretto di Burri visto dall’alto, foto di Aurelio Amendola

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