Rai Palermo: “Non mi piace il buio”, feroce pagina di storia mafiosa narrata dai pupi di Angelo Sicilia

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Chi conosce lo scrittore, drammaturgo e regista Angelo Sicilia sa che i suoi pupi non sono lì per farci divertire ma raccontarci la realtà che ci circonda, e perpetuarla nei suoi risvolti più tragici nella nostra memoria, per non dimenticare ciò che è bene ricordare. Il suo lavoro ha qualcosa commovente nella sua capacità di attualizzare il teatro delle marionette di tradizione storica, stravolgerlo con una grande  passione civile, e nello stesso tempo declinarlo con un linguaggio talmente semplice da fare si che comprendano anche i bambini qualcosa difficile da comunicare: la mafia, cos’è, e la sua antagonista, la legalità.

Questo nuovo spettacolo, che andrà in prima nazionale alla sede Rai di Palermo il 27 aprile, alle 18,00, “Non mi piace il buio“, prigionia e morte di Giuseppe Di Matteo, è liberamente (per quanto si può) ispirato a un libro, scritto da Martino Lo Cascio: “Il giardino della memoria“.
La storia che Lo Cascio racconta affonda le sue radici nella cronaca di uno dei più efferati delitti mafiosi degli ultimi decenni: il rapimento del tredicenne Giuseppe Di Matteo e il suo assassinio, due anni dopo, l’11 gennaio 1996. Un’assurdità che ci piacerebbe poter pensare solo frutto della fantasia mentre è realmente accaduto. Io narrante di questa drammatica storia è un regista teatrale che accetta l’incarico di scrivere una pièce su quell’omicidio e per farlo si concentra sui 779 giorni di prigionia del ragazzo. Al suo racconto si alternano e si accompagnano come un coro da tragedia la voce della vittima stessa, Giuseppe, e quelle fissate nella trascrizione di ampi stralci degli atti giudiziari del processo. Emerge così con una crudezza surreale, l’assassinio.

Ripercorriamo brevemente l’antefatto, riportato da Antimafia2000: era l’11 gennaio 1996, quando Vincenzo Chiodo, Enzo Brusca e Giuseppe Monticciolo eseguirono l’ordine di morte nei confronti del piccolo Giuseppe Di Matteo, prigioniero dei corleonesi da 779 giorni. Tutto si svolse in fretta. Chiodo disse al bambino di mettersi nell’angolo della camera dove si trovava, vicino al letto con le braccia alzate; mentre Enzo Brusca e Monticciolo tenevano il bambino fermo, Chiodo si avvicinò al bambino e gli avvolse la corda intorno al collo, ma prima ancora di stringerla, Monticciolo si rivolse al bambino e disse: “Tuo papà ha fatto il cornuto”. Una volta morto, presero il corpo e lo sciolsero nei fusti dell’acido. E’ così che finirono i giorni della prigionia del giovane dodicenne. Giuseppe Di Matteo era un bambino sorridente, che amava la vita e aveva una passione per i cavalli. Suo padre, Santino Di Matteo detto “Mezzanasca”, era affiliato a Cosa nostra e frequentava personaggi come Giovanni Brusca. Santino fu arrestato il 4 giugno 1993 per numerosi omicidi mafiosi e poco dopo decise di collaborare. Iniziò così a fare i nomi di chi si nascondeva dietro le stragi mafiose di Capaci e Via D’Amelio, che costarono la vita ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Le dichiarazioni del pentito portarono a una svolta nelle indagini, fino a quel momento nessun collaboratore di giustizia aveva osato parlare delle stragi del ’92. Ma quelle rivelazioni scatenarono la reazione di Cosa nostra che voleva fermare l’ex picciotto e affidò a Giovanni Brusca il compito di rapire il figlio. Il 23 novembre 1993, i corleonesi adescarono il bambino mentre usciva dal maneggio, dove abitualmente andava a cavalcare. Quattro uomini si presentarono come poliziotti incaricati per portarlo dal padre. Invece lo caricarono in macchina e lo portarono in una villa a Misilmeri, dove era stato allestito un bunker per la prigionia.
Al nonno, Giuseppe Di Matteo, fu fatto recapitare un biglietto con scritto: “Il bambino c’è l’abbiamo noi, non andare ai carabinieri se tieni alla pelle di tuo nipote”. Poi una sera il nonno fu avvicinato da un affiliato che gli mostrò una foto del bambino e gli disse: “Devi andare da tuo figlio e farci sapere che, se vuole salvare il bambino, deve ritirare le accuse fatte a quei personaggi, deve finire di fare tragedie”. Rientrato a casa, il nonno raccontò il tutto a Franca, madre del bambino, che chiamò subito la DIA per parlare con suo marito. L’incontro avvenne in una stanza della Direzione Investigativa Antimafia di Palermo, dove la moglie raccontò al marito che il loro bambino era stato sequestrato. I messaggi e le foto da parte dei sequestratori continuarono ad arrivare alla casa del nonno Giuseppe tramite il messaggero di Brusca, Pietro Romeo. In famiglia però decisero di non denunciare il rapimento, ma di aprire una trattativa. Dato l’antico legame con Benedetto Spera, capomandamento di Belmonte Mezzagno, vicinissimo a Bernardo Provenzano. Nonostante la notizia, Santino continuava a parlare e i sostituti procuratori Giuseppe Pignatone e Francesco Lo Voi trovavano conferma ai racconti del pentito. Il 13 dicembre 1993 Santino, molto preoccupato per il piccolo, valutò la possibilità di interrompere la collaborazione e provare a salvare suo figlio e durante un’udienza per un delitto di mafia, dove era stato chiamato a deporre, Di Matteo si avvalse della facoltà di non rispondere. Successivamente Santino incontrò suo padre nel Commissariato di Palermo e insieme decisero di trovare a “modo loro” il bambino. Intanto il bambino veniva trasferito in varie località delle provincie palermitane, agrigentine e trapanesi. Brusca chiese anche aiuto a Matteo Messina Denaro per nascondere il bambino e trovò l’aiuto del boss Lentini.

Il bambino fu trasferito da Gangi a Castellammare del Golfo. La notizia del rapimento non riuscì a restare nascosta, arrivò alla stampa e ai notiziari televisivi. Un redattore vide su una volante l’immagine del bambino e un’altra in cui saltava a cavallo. Indizi che portarono a Santino Di Matteo.
La storia del rapimento cominciò a pesare all’interno di Cosa nostra, tanto che il boss Antonino Madonia affrontò rabbiosamente Leoluca Bagarella nel carcere di Paliano. Nella casa di Enzo Brusca a Giamascio, Monticciolo stava costruendo un bunker, dove si decise di trasferire il bambino e dove poi fu ucciso. La Corte d’Assise di Palermo condannò all’ergastolo Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella per essere stati gli esecutori dell’omicidio di Ignazio Salvo. Questo fece scatenare l’ira di Brusca che la riversò sul piccolo Di Matteo, sentenziando la sua morte. Il boss di San Giuseppe Jato infatti ordinò a Enzo Brusca, Vincenzo Chiodo e Giuseppe Monticciolo di eseguire l’uccisione del bambino. Così l’11 gennaio 1996 Giuseppe Di Matteo fu strangolato e sciolto nell’acido. La notizia della morte del bambino fu rivelata proprio dai due esecutori dell’omicidio Giuseppe Monticciolo e Vincenzo Chiodo. Dopo l’arresto di Salvatore Cucuzza, boss di Porta Nuova, la DIA trovò una rubrica telefonica dove non erano riportati numeri, ma soprannomi; grazie ai quali si riuscì a localizzare Brusca ed arrestarlo il 20 maggio 1996. Per l’omicidio di Giuseppe Di Matteo, sono sono stati condannati all’ergastolo Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella, Matteo Messina Denaro, ancora latitante, Giuseppe Graviano, Salvatore Benigno, Francesco Giuliano e Luigi Giacalone. Mentre a Monticciolo sono stati inflitti 20 anni di carcere, a Enzo Brusca 30 anni anche per altri omicidi di mafia, Chiodo 21 anni di reclusione e Spatuzza è stato condannato a 12 anni di carcere.

Con l’omicidio del piccolo Di Matteo, Cosa nostra ha mostrato la sua massima mostruosità e crudeltà. Sono proprio curiosa di sapere come potranno, i pupi di Angelo, raccontarci ancora una volta questa storia, che parole, che gesti troveranno per mantenere sveglia la nostra coscienza, per farci piangere in eterno con la morte di Giuseppe quella metaforica, ma non troppo, di tanti bambini siciliani. Andrò a vedere lo “spettacolo” di Angelo, l’invito peraltro è rivolto a tutti fino a esaurimento posti, il suo lavoro sulla memoria mi ricorda tutte le volte il volo di un uccello: prima plana molto lentamente e poi scende in picchiata e il ricordo appare lì sul palco, come un indimenticabile dipinto.

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