Si può anche sorvolare sull’arrivo della terza repubblica il 4 marzo con il successo dei partiti vincitori, Movimento 5 Stelle e Lega, ma non è lecito dubitare sul fatto che il governo in via di composizione, salvo complicazioni, costituisca una svolta che possiamo chiamare: “generational governance”.
I due leader che si contendono Ministeri e Palazzo Chigi, oggi, hanno in comune soltanto l’appartenenza ad una generazione di politici che non hanno niente a che vedere con il passato. Anche leader vero del maggiore partito di opposizione, l’ex premier Matteo Renzi, appartiene alla generazione di Di Maio e Salvini, a conferma che i due ruoli delle democrazie parlamentari, maggioranza ed opposizione, sono nelle mani di uomini (e donne) nati a cavallo del secondo millennio, o quasi.
Il guru del M5S, Beppe Grillo, avvertì all’indomani del 4 marzo, che Di Maio e Salvini si sarebbero intesi per il semplice motivo che appartengono entrambi allo stesso tempo storico. Grillo confessò di essere fuori, per ragioni anagrafiche, dal dialogo che sarebbe stato alla fine utile per la formazione del nuovo esecutivo.
L’idea che si possa stare insieme per ragioni cronologiche, di appartenenza al tempo vissuto, può essere presa in considerazione per tutta una serie di questioni, dalla cultura alla moda, dalla musica alle tecnologie ma non per conquistare Palazzo Chigi. Sugli accordi di governo, o dal contratto (come amano definirlo i 5 Stelle), la prossimità generazionale sarebbe dovuta restare fuori.
Sin dalla nascita della Repubblica le intese raggiunte fra i partiti, e le coalizioni per la composizione dei governi e delle maggioranze hanno riguardato le cose da fare. Una “generational governance” non è stata presa in considerazione, perché non sta né in cielo né in terra. Eppure così è stato autorevolmente preannunciato e così è andata.
Luigi Di Maio si è battuto perché si firmasse un contratto, allo scopo di rompere con il passato, e per spiegare l’intesa con i leghisti si è richiamato alla legge di ogni democrazia, che a governare fossero i vincitori.
Anche questa motivazione appare sorprendente e senza precedenti. E’ capitato altre volte che i risultati elettorali facessero registrare il successo di due partiti appartenenti a schieramenti e coalizioni diverse, ma non è mai avvenuto che gli acordi di governo promuovessero intese fra partiti dalle caratteristiche diverse, se non addirittura opposte.
La gerarchia delle volontà e delle intenzioni non vede oggi al primo posto i contenuti, quasi che fossero un problema facilmente risolvibile. Si pensi, tanto per fare un esempio, alle ragioni della scissione del PD: gli scissionisti hanno rimproverato a Matteo Renzi una modesta considerazione dei tradizionali temi della sinistra. Sui contenuti si è combattuta la guerra delle due sinistre, quella riformista e l’altra, legata ai valori e alle vecchie opzioni operaiste.
Si dirà che siamo nell’era post-ideologica e che, quindi, trattare su argomenti concreti, e non sul sesso degli angeli, cioè quanta sinistra ci sia nel reddito di cittadinanza e quanta destra ci sia nel respingimento dei migranti, è diventata questione…di lana caprina. Ma fra il sistema di tassazione promosso dal centrodestra, e quindi dalla Lega, e il reddito di cittadinanza c’è un abisso. Non è possibile tagliare i tributi delle fasce più alte per far ripartire l’economia e spalmare il reddito di cittadinanza a milioni di italiani.
Vedremo che cosa s’inventeranno i protagonisti della “generational governance” per risolvere l’enigma.