Nel 1992 non sarebbe stato il boss mafioso Totò Riina, morto lo scorso novembre, a volere avviare una trattativa con pezzi dello Stato. Ma sarebbero stati esponenti delle Istituzioni a volere dare vita a un accordo per fare cessare le stragi mafiose e non il capomafia. Ne è convinto il pm antimafia Nino Di Matteo che, durante la ripresa della requisitoria al processo sulla trattativa tra Stato e mafia, ha letto la relazione fatta nel 2013 da due assistenti penitenziari del carcere di Opera a Milano sulle parole pronunciate dal boss Riina. Riina disse ‘Non mi hanno arrestato i Carabinieri ma Vito Ciancimino e Bernardo Provenzano’ – dice il magistrato – E lo stesso Riina ha poi sottolineato, come emerge dalla relazione dei due assistenti penitenziari: ‘Non ero io a cercare loro per trattare con loro ma era loro che cercavano me per trattare, io non cercavo nessuno'”. Secondo il pm Di Matteo un “riscontro alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Cancemi e Brusca” ma anche del “dichiarante Massimo Ciancimino”, quest’ultimo imputato nel processo per concorso esterno in associazione mafiosa.
ll boss mafioso Totò Riina, morto lo scorso novembre, “non era consapevole di essere intercettato nello spazio esterno del carcere” in cui era detenuto. “Se fosse stato consapevole o avesse avuto un sospetto serio, non avrebbe parlato così a lungo e approfonditamente di quasi tutti gli omicidi di cui si è reso protagonista e non si sarebbe vantato, con profili di autoesaltazione che stridono con la purezza del racconto delle stragi e di omicidi eccellenti. Inoltre, non avrebbe parlato tante volte dei suoi congiunti, della moglie e dei figli”. Lo ha detto il pm antimafia Nino Di Matteo, proseguendo la sua requisitoria nel processo sulla trattativa tra Stato e mafia, in corso all’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo. Una replica a distanza a chi sostiene da tempo che il capomafia di Corleone “sapeva di essere intercettato in carcere”. Le intercettazioni a cui fa riferimento il pm della Dna sono quelle del 2013 tra Totò Riina e il codetenuto Alberto Lorusso, che sembrava il depositario degli sfoghi e dei propositi di morte del boss.
In quelle lunghe ore di conversazioni, tutte registrate dalle cimici del carcere, Riina aveva parlato degli anni Ottanta e inizio Novanta, e del suo odio contro i magistrati, da Rocco Chinnici a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, fino allo stesso Nino Di Matteo e gli altri pm antimafia. E quasi si lamentava, Riina, che gli italiani non condividessero i suoi propositi di morte: “Mi viene una rabbia a me… ma perché questa popolazione non vuole ammazzare a nessun magistrato?”, diceva a Lorusso.
“Se avesse saputo di essere intercettato – prosegue il pm Di Matteo – Riina non avrebbe parlato così approfonditamente di suo nipote Giovanni Grizzafi e delle aspettative che nutriva rispetto alla prossima scarcerazione di Grizzafi che gli avrebbe permesso di tessere le fila di tante situazioni. Se avesse avuto un serio sospetto di essere intercettato nello spazio esterno non avrebbe mai parlato di beni patrimoniali riconducibili alla sua famiglia. In alcuni momenti delle conversazioni con Lorusso parla di beni che ha nella disponibilità di cui nessuno aveva sospettato”.
“Inoltre – dice ancora il pm Di Matteo – Riina non avrebbe sollecitato l’eliminazione di uno dei pm del processo”, facendo riferimento a lui stesso, nel mirino del capomafia Riina. Parlando del magistrato, Riina aveva detto nelle intercettazioni: “Ti farei diventare il primo tonno, il tonno buono… Ancora ci insisti? Perché, me lo sono tolto il vizio? Inizierei domani mattina… Minchia ho una rabbia… Sono un uomo e so quello che devo fare, pure che ho cento anni”. Il nome del pm venne fuori anche in riferimento allepolemiche seguite alla citazione come testimone dell’ex capo dello Stato Giorgio Napolitano (‘Questo Di Matteo, questo disonorato, questo prende pure il presidente della Repubblica’), a cui Riina immagina di fargli fare la fine del procuratore Scaglione, assassinato nel 1971: “A questo ci finisce lo stesso”. Nelle intercettazioni Riina parlava anche della strage di Capaci in cui morirono Giovanni Falcone, sua moglie Francesca e tre agenti di scorta. Per Riina fu “una mangiata di pasta”.
“In qualche modo” Silvio Berlusconi “mi cercava, mi ha mandato a questo e mi cercava. Gli abbiamo fatto cadere
quattro o cinque volte le antenne e non lo abbiamo fatto più
trasmettere. Gli abbiamo fatto questo ammonimento e non l’ho cercato più”. Sono queste le parole pronunciate dal boss mafioso Totò Riina in carcere mentre parlava con il codetenuto Albero Lorusso. Le intercettazioni del capomafia di Corleone, morto lo scorso novembre, sono state lette in aula dal pm Nino Di Matteo durante la requisitoria al processo sulla trattativa tra Stato e mafia.
“Nei dialoghi intercettati in carcere – dice il magistrato -Riina più
volte parla dei canali tramite i quali avrebbe potuto contattare
Dell’Utri”, l’ex senatore imputato nel processo per minaccia a corpo
politico dello Stato.Non solo. Secondo Di Matteo “Riina dimostra di essere consapevole dei rapporti che i fratelli Graviano avevano per i loro canali con l’imprenditore e poi politico Berlusconi. Alterna momenti di sincera confidenza con dei momenti in cui invece assume ufficialmente la parte di chi non sa nulla”.
“Per un nucleo forte ed essenziale di sue dichiarazioni, Massimo Ciancimino è credibile e attendibile e ha avuto il grosso merito di avere risvegliato le stanche le reminiscenze di chi, fino a quel momento, non aveva voluto parlare di circostanze che non poteva avere giudicato irrilevanti”. Lo ha detto il pm Nino DiMatteo parlando di Massimo Ciancimino, testimone chiave del processo trattativa ma anche imputato.
Palermo, 11 gen. (AdnKronos) – “Nel giugno del 1992” a un mese dalla strage di Via D’Amelio “Paolo Borsellino riferì alla moglie Agnese che c’era in corso una trattativa tra pezzi infedeli dello Stato e la mafia. A riferirlo è stata la stessa vedova del giudice Borsellino, Agnese Piraino Leto”. Lo ha detto il pm Nino Di Matteo proseguendo, dopo una breve pausa, la requisitoria al processo sulla trattativa tra Stato e mafia. Il magistrato sta ricordando le dichiarazioni rese dalla vedova dopo la strage del 19 luglio 1992. “Prima Borsellino parla alla moglie Agnese di una trattativa tra pezzi dello Stato e la mafia dice Di Matteo – poi specifica pezzi dello Stato infedeli e la mafia”. In un’altra occasione, il 15 luglio del 1992, è sempre Agnese Borsellino a raccontare che il marito Paolo “era sconvolto”.
“Succede qualcosa che ulteriormente turba Borsellino – dice ancora il pm Di Matteo – Tra l’8 e il 10 luglio, quando il giudice Borsellino ha capito che c’erano cose che non quadravano parla del generale Antonio Subranni (imputato nel processo ndr) definendolo ‘punciutu’. Utilizza una metafora drammatica per esternare alla moglie qualcosa che aveva scoperto. Non perché qualche pentito gli avesse detto che ‘Subranni è punciutu’, ma perché evidentemente con quella frase e quel giudizio aveva avuto consapevolezza che quella trattativa riguardava una persona per la quale aveva stima, aveva pure vomitato per la nausea”. E rivolgendosi alla Corte d’assise e ai giudici dice: “Voi pensate che il giudice Borsellino, che in quello stesso periodo aveva avuto le confidenze del collaboratore Mutolo sulle gravissime collusioni di Bruno Contrada, ebbe la presa di consapevolezza dell’esistenza di una trattativa già in corso”. (Ter/AdnKronos)