Di Matteo, “Riina non sapeva di essere intercettato. E Borsellino sapeva della trattativa…”

0
26
Condividi su Facebook
Tweet su Twitter


Want create site? Find Free WordPress Themes and plugins.

Nel 1992 non sarebbe stato il boss mafioso Totò Riina, morto lo scorso novembre, a volere avviare una  trattativa con pezzi dello Stato. Ma sarebbero stati esponenti delle Istituzioni a volere dare vita a un accordo per fare cessare le stragi mafiose e non il capomafia. Ne è convinto il pm antimafia Nino Di  Matteo che, durante la ripresa della requisitoria al processo sulla  trattativa tra Stato e mafia, ha letto la relazione fatta nel 2013 da  due assistenti penitenziari del carcere di Opera a Milano sulle parole pronunciate dal boss Riina. Riina disse ‘Non mi hanno arrestato i  Carabinieri ma Vito Ciancimino e Bernardo Provenzano’ – dice il  magistrato – E lo stesso Riina ha poi sottolineato, come emerge dalla  relazione dei due assistenti penitenziari: ‘Non ero io a cercare loro  per trattare con loro ma era loro che cercavano me per trattare, io  non cercavo nessuno'”. Secondo il pm Di Matteo un “riscontro alle  dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Cancemi e Brusca” ma  anche del “dichiarante Massimo Ciancimino”, quest’ultimo imputato nel  processo per concorso esterno in associazione mafiosa.

ll boss mafioso Totò Riina, morto lo  scorso novembre, “non era consapevole di essere intercettato nello  spazio esterno del carcere” in cui era detenuto. “Se fosse stato  consapevole o avesse avuto un sospetto serio, non avrebbe parlato così a lungo e approfonditamente di quasi tutti gli omicidi di cui si è  reso protagonista e non si sarebbe vantato, con profili di  autoesaltazione che stridono con la purezza del racconto delle stragi  e di omicidi eccellenti. Inoltre, non avrebbe parlato tante volte dei  suoi congiunti, della moglie e dei figli”. Lo ha detto il pm antimafia Nino Di Matteo, proseguendo la sua requisitoria nel processo sulla  trattativa tra Stato e mafia, in corso all’aula bunker del carcere  Ucciardone di Palermo. Una replica a distanza a chi sostiene da tempo  che il capomafia di Corleone “sapeva di essere intercettato in  carcere”. Le intercettazioni a cui fa riferimento il pm della Dna sono quelle del 2013 tra Totò Riina e il codetenuto Alberto Lorusso, che  sembrava il depositario degli sfoghi e dei propositi di morte del  boss.

In quelle lunghe ore di conversazioni, tutte registrate dalle cimici  del carcere, Riina aveva parlato degli anni Ottanta e inizio Novanta,  e del suo odio contro i magistrati, da Rocco Chinnici a Giovanni  Falcone e Paolo Borsellino, fino allo stesso Nino Di Matteo e gli  altri pm antimafia. E quasi si lamentava, Riina, che gli italiani non  condividessero i suoi propositi di morte: “Mi viene una rabbia a me… ma perché questa popolazione non vuole ammazzare a nessun  magistrato?”, diceva a Lorusso.

“Se avesse saputo di essere intercettato – prosegue il pm Di Matteo –  Riina non avrebbe parlato così approfonditamente di suo nipote  Giovanni Grizzafi e delle aspettative che nutriva rispetto alla  prossima scarcerazione di Grizzafi che gli avrebbe permesso di tessere le fila di tante situazioni. Se avesse avuto un serio sospetto di  essere intercettato nello spazio esterno non avrebbe mai parlato di  beni patrimoniali riconducibili alla sua famiglia. In alcuni momenti  delle conversazioni con Lorusso parla di beni che ha nella  disponibilità di cui nessuno aveva sospettato”.

“Inoltre – dice ancora il pm Di Matteo – Riina non avrebbe sollecitato l’eliminazione di uno dei pm del processo”, facendo riferimento a lui stesso, nel mirino del capomafia Riina. Parlando del magistrato, Riina aveva detto nelle intercettazioni: “Ti farei diventare il primo tonno, il tonno buono… Ancora ci insisti? Perché, me lo sono tolto il vizio? Inizierei domani mattina… Minchia ho una rabbia… Sono un uomo e so quello che devo fare, pure che ho cento anni”. Il nome del pm venne fuori anche in riferimento allepolemiche seguite alla citazione come testimone dell’ex capo dello Stato Giorgio Napolitano (‘Questo Di Matteo, questo disonorato, questo prende pure il presidente della Repubblica’), a cui Riina immagina di fargli fare la fine del procuratore Scaglione, assassinato nel 1971: “A questo ci finisce lo stesso”. Nelle intercettazioni Riina parlava anche della strage di Capaci in cui morirono Giovanni Falcone, sua moglie Francesca e tre agenti di scorta. Per Riina fu “una mangiata di pasta”.

“In qualche modo” Silvio Berlusconi “mi cercava, mi ha mandato a questo e mi cercava. Gli abbiamo fatto cadere
quattro o cinque volte le antenne e non lo abbiamo fatto più
trasmettere. Gli abbiamo fatto questo ammonimento e non l’ho cercato più”. Sono queste le parole pronunciate dal boss mafioso Totò Riina in carcere mentre parlava con il codetenuto Albero Lorusso. Le intercettazioni del capomafia di Corleone, morto lo scorso novembre, sono state lette in aula dal pm Nino Di Matteo durante la requisitoria al processo sulla trattativa tra Stato e mafia.

“Nei dialoghi intercettati in carcere – dice il magistrato -Riina più
volte parla dei canali tramite i quali avrebbe potuto contattare
Dell’Utri”, l’ex senatore imputato nel processo per minaccia a corpo
politico dello Stato.Non solo. Secondo Di Matteo “Riina dimostra di essere consapevole dei rapporti che i fratelli Graviano avevano per i loro canali con l’imprenditore e poi politico Berlusconi. Alterna momenti di sincera confidenza con dei momenti in cui invece assume ufficialmente la parte di chi non sa nulla”.

“Per un nucleo forte ed essenziale di sue dichiarazioni, Massimo Ciancimino è credibile e attendibile e ha avuto il grosso merito di avere risvegliato le stanche le reminiscenze di chi, fino a quel momento, non aveva voluto parlare di circostanze che non poteva avere giudicato irrilevanti”. Lo ha detto il pm Nino DiMatteo parlando di Massimo Ciancimino, testimone chiave del processo trattativa ma anche imputato.

Palermo, 11 gen. (AdnKronos) – “Nel giugno del 1992” a un mese dalla  strage di Via D’Amelio “Paolo Borsellino riferì alla moglie Agnese che c’era in corso una trattativa tra pezzi infedeli dello Stato e la  mafia. A riferirlo è stata la stessa vedova del giudice Borsellino,  Agnese Piraino Leto”. Lo ha detto il pm Nino Di Matteo proseguendo,  dopo una breve pausa, la requisitoria al processo sulla trattativa tra Stato e mafia. Il magistrato sta ricordando le dichiarazioni rese  dalla vedova dopo la strage del 19 luglio 1992. “Prima Borsellino  parla alla moglie Agnese di una trattativa tra pezzi dello Stato e la  mafia dice Di Matteo – poi specifica pezzi dello Stato infedeli e la  mafia”. In un’altra occasione, il 15 luglio del 1992, è sempre Agnese  Borsellino a raccontare che il marito Paolo “era sconvolto”.

“Succede qualcosa che ulteriormente turba Borsellino – dice ancora il  pm Di Matteo – Tra l’8 e il 10 luglio, quando il giudice Borsellino ha capito che c’erano cose che non quadravano parla del generale Antonio  Subranni (imputato nel processo ndr) definendolo ‘punciutu’. Utilizza  una metafora drammatica per esternare alla moglie qualcosa che aveva  scoperto. Non perché qualche pentito gli avesse detto che ‘Subranni è  punciutu’, ma perché evidentemente con quella frase e quel giudizio  aveva avuto consapevolezza che quella trattativa riguardava una  persona per la quale aveva stima, aveva pure vomitato per la nausea”. E rivolgendosi alla Corte d’assise e ai giudici dice: “Voi pensate che il giudice Borsellino, che in quello stesso periodo aveva avuto le  confidenze del collaboratore Mutolo sulle gravissime collusioni di Bruno Contrada, ebbe la presa di consapevolezza dell’esistenza di una trattativa già in corso”.        (Ter/AdnKronos)

Did you find apk for android? You can find new Free Android Games and apps.


LASCIA UN COMMENTO

Inserisci il tuo commento!
Inserisci il tuo nome:

Time limit is exhausted. Please reload the CAPTCHA.