E i perdenti? Autocritica e nuove visioni per una sinistra nazional-popolare

0
6
Condividi su Facebook
Tweet su Twitter


Want create site? Find Free WordPress Themes and plugins.

Siamo davanti a un quadro politico davvero nuovo. Il disagio, il rancore, la rabbia prodotta dalle politiche liberiste hanno rotto i vecchi equilibri e premiato M5s e Lega, ovvero quei populismi che erano stati dati frettolosamente per spacciati. Tuttavia, la scomposizione e ricomposizione delle forze è solo agli inizi.

La sinistra, ridotta ai minimi storici e rasa al suolo potrebbe rinascere dalle sue ceneri come la Fenice se fosse in grado di tornare ad essere una forza politica nazionale e popolare capace di cogliere il nesso strettissimo tra difesa del lavoro, ricostruzione e rafforzamento dello stato, autonomia nazionale e nuovo spazio geopolitico cooperativo. Una tale forza potrebbe alla lunga mostrare le pur esistenti incongruenze di tutti coloro che oggi occupano la scena e potrebbe tentare di rimettere mano ad una esperienza e ad una riflessione orientate verso il socialismo. Ma una tale forza è ancora ben lontana dall’esistere. Per nascere ha bisogno di uomini e donne che non si illudano sulla possibilità di trasformare in senso positivo ciò che già esiste, e siano consapevoli della necessità di creare ciò che non è mai esistito: una forza capace di ridiscutere la collocazione internazionale del paese e quindi i rapporti sociali che questa impone. Questi uomini e queste donne si trovano, di fatto, soprattutto all’interno della diaspora della sinistra (una diaspora molto ampia che si distribuisce nell’astensione, nel voto al M5S per arrivare fino alla stessa Lega), ed è per questo che dovrebbero cercare e trovare una strada autonoma, distinta sia dalla vecchia sinistra che dagli attuali, improbabili, quadri esistenti della sinistra stessa.

Nel loro insieme, le sinistre italiane rappresentano ormai quasi soltanto gli strati superiori del lavoro, che temono l’inflazione più che la disoccupazione, e un ceto intellettuale radicalchic che risponde soltanto al mercato, ed ha quindi perso ogni rapporto organico coi ceti popolari. La sinistra “clintoniana” ha sostituito nel tempo il linguaggio socialcomunista con quello politically correct, che usa le più nobili cause per i più ignobili fini, ed evoca di continuo l’ambientalismo, la lotta alla discriminazione di genere, i diritti civili ed umani per evitare di parlare di eguaglianza o per giustificare le guerre imperialiste. La sinistra radicale insiste in un movimentismo antistatalista che è da anni obsoleto. C’è da stupirsi dei risultati elettorali? C’è invece da stupirsi del fatto che vi siano ancora mtanti militanti o semplici cittadini-elettori che vogliono capire il perché della sconfitta, e come ripartire. A tutti coloro che si sentono ancora testardamente di sinistra vogliamo ricordare che nel mondo esistono sinistre socialiste che non sono puri relitti della storia, come le rivoluzioni bolivariane in America Latina e i vari Podemos, Sanders, Corbyn e Mélenchon. Resistono o sfiorano addirittura la vittoria quelle forze che, pur non rinnegando i vecchi valori della sinistra, non hanno paura di parlare di nazione e di popolo. E che ci insegnano che se un movimento anticapitalista potrà rinascere potrà farlo solo come socialismo nazional-popolare, e quindi, suo malgrado, ripartire dall’attenzione e l’interesse per i ceti popolari, che costituiscono la maggioranza.

Ugo Boghetta, Carlo Formenti, Mimmo Porcaro, (ex comunisti) hanno tracciato una discussione su questo tema per un’assemblea autoconvocata che, su iniziativa degli stessi autori, si è tenuta a Bologna lo scorso aprile.

In Italia, secondo la loro analisi, una proposta socialista risponderebbe non soltanto agli interessi dei lavoratori ma all’interesse generale del paese. Dato il carattere predatorio del capitale esterno, una seria e duratura ripresa della nostra economia sarebbe possibile solo grazie ad una forte impresa e a un forte sistema bancario pubblici, cioè grazie ad una importante trasformazione dei rapporti di proprietà e ad un intervento politico di programmazione. La piena occupazione, la messa in sicurezza del territorio, il risparmio energetico, l’ammodernamento dell’apparato produttivo, non sono possibili senza la costruzione di una economia mista. La valorizzazione dell’export richiede il retroterra di un mercato interno fortemente sviluppato, e quindi un aumento dei redditi da lavoro. La riduzione del nuovo, crescente divario Nord-Sud non è possibile senza un grande intervento pubblico. Infine il mantenimento della pace nell’area mediterraneo-balcanica impone, per un nuovo sguardo di sinistra, una politica estera di tipo socialista, favorevole alla cooperazione paritaria fra stati e contraria alle ingerenze nei loro affari interni da parte degli imperialismi occidentali. Insomma, per rovesciare una vecchia battuta di Henry Ford, “oggi ciò che è buono per i lavoratori è buono anche per l’Italia intera”. Ciò che quaranta anni fa poteva apparire troppo moderato, oggi è troppo radicale per gli oligarchi: riforme apparentemente modeste richiedono vere discontinuità, e, se dal punto di vista logico la possibilità di una politica socialista presuppone la rottura con l’Unione europea, dal punto di vista morale e culturale implica il recupero della visione nazional popolare di gramsciana memoria.

Queste le tesi di fondo discusse alla recentissima Assemblea bolognese. “La sinistra italiana muore di europeismo e di elitarismo. muore per aver sposato la stabilità monetaria, la finanza ed il mercato, l’ossessione per le esportazioni e la concorrenza fra stati. Muore per difendere l’euro, che è la moneta dei grandi capitali e dei grandi creditori. Muore per aver prodotto la miseria dei suoi stessi elettori al fine di rendere appetibili per il capitale nordeuropeo le imprese, il risparmio ed il lavoro italiano”. Molti militanti hanno creduto che quello europeo fosse uno spazio “più ampio” che, come tale, avrebbe consentito una lotta più efficace, capace anche di correggere i “difetti” dell’Unione europea a partire dai suoi evidenti deficit di democrazia. Ma è ormai chiaro a tutti che l’Unione europea non è uno spazio neutro, piuttosto una vera e propria macchina antipopolare, concepita al fine di rendere impossibile il socialismo e qualunque seria redistribuzione del reddito e del potere, una macchina che fa sì che le lotte sociali siano sempre sconfitte in partenza, perché le insindacabili regole giuridico-economiche dell’Unione (cioè gli automatismi “tecnici” che realizzano ed occultano il dominio politico del grande capitale) prevedono soltanto risposte deflattive e mercantiliste. Una macchina che indebolisce e divide i lavoratori e corrompe le associazioni civiche inglobandole nella governance continentale. “Non c’è nessuna possibilità di riformare questa macchina: la vicenda greca ha dimostrato cosa succede a chi va contro L’Unione, e l’arrendevolezza della sinistra greca non è servita ad ammorbidire l’avversario”. “E se la Germania e la Francia decidessero, visto lo scontro con gli Usa, qualche concessione tattica a favore dell’Europa meridionale, lo farebbero solo a patto di rafforzare i meccanismi di centralizzazione del comando continentale. Meccanismi che fanno sì che in Europa, accanto alla evidente questione sociale e strettamente intrecciata ad essa, si manifesti una vera e propria questione nazionale, che oggi riguarda anche economie capitalistiche evolute mentre ieri era appannaggio esclusivo dei Paesi ex coloniali. I paesi periferici e semiperiferici dell’Europa aumentano infatti costantemente la loro posizione debitoria nei confronti dei paesi forti e, per tentare di rovesciare la tendenza, possono usare soltanto l’arma della deflazione salariale, aggravando il problema invece di risolverlo. In tal modo la subordinazione nazionale si converte in subordinazione di classe, ed è per questo che la lotta di classe e popolare deve passare anche dalla riconquista dell’autonomia nazionale, condizione necessaria per risalire la china”.

Consapevoli del fatto che proprio su quest’analisi scatta, immancabile, l’accusa di riflesso pavloviano della sinistra, di nazionalismo, sovranismo, rosso-brunismo, la “nuova sinistra” sostiene di avere una visione che non ha nulla a che fare con tutto ciò. Sostiene cioè di non essere nazionalista perché il nazionalismo borghese vuole reprimere la lotta di classe e trasformarla in guerra fra le nazioni e i popoli, mentre loro rivendicherebbero l’autonomia dello spazio nazionale proprio per ricostruire l’autonomia politica dei lavoratori e per stabilire nuovi rapporti cooperativi con gli altri popoli. Di non essere sovranista nel senso classico del termine: certo concepiscono il recupero della sovranità come presupposto fondamentale della vita politica di un popolo e come condizione elementare dell’esercizio delle sue facoltà democratiche (condizione non a caso incorporata nelle Carte costituzionali). Ma il sovranismo puro e semplice usa tutto ciò soltanto per riottenere la flessibilità del cambio e la facoltà di battere moneta: cose utili e necessarie tuttalpiù a ridare un po’ di fiato alle Pmi, mentre, secondo loro, la piena occupazione e una ripresa stabile dell’economia italiana richiederebbero elementi di socialismo. Infine non è rosso-bruna perché non propone un mix di idee eterogenee, come fanno i populismi che amano definirsi né di destra né di sinistra, ma un’esaltazione dei temi più classici e forti della sinistra del passato (e del futuro): autorganizzazione sociale e lotta per il potere politico, democratizzazione dello stato (il farsi stato delle classi subordinate, cosa ben diversa dall’entrare nello stato così com’è), attacco al dominio del capitale: il tutto calibrato sul contesto concreto e specifico nel quale si agisce, ossia sul contesto nazionale (perché le classi subordinate possono lottare e vincere solo nei territori in cui vivono, mentre non hanno strumenti per confrontarsi con il capitale su quell’arena globale che è di sua esclusiva pertinenza). E affermano: “Ogni reale esperienza di emancipazione popolare avvenuta sotto una bandiera rossa ha assunto una forma nazionale: quelli che esaltano la lotta nazionale e socialista dell’Unione Sovietica antinazista, della Cina, del Vietnam, di Cuba e del Venezuela, mentre bollano coloro che anche da noi assumono una prospettiva del genere con l’appellativo infamante di “nazionalsocialisti”, che non avrebbero capito nulla delle condizioni di subalternità del paese in cui vivono.

Il compito di un movimento socialista, nazionale e popolare non è facile. Le guardie bianche dell’europeismo, presenti in forze anche nella sinistra radicale, paventano catastrofi ogni volta che si parla di Italexit: “inflazione, vendetta dei mercati, spread, recessione!”. “E’ patetico vedere gente che vuole superare il capitalismo ma ritiene insuperabile un’unione monetaria. Gente che vorrebbe fare una rivoluzione talmente beneducata da non suscitare reazioni controrivoluzionarie. Gente che mentre ammette che l’Unione europea si regge ormai solo sul ricatto, sulla paura, sulla minaccia della disoccupazione e della fame, continua a difenderla come l’ultimo baluardo della democrazia”. “Dobbiamo essere consapevoli che si tratta di una lotta durissima che modifica elementi costitutivi degli ultimi settant’anni di storia nazionale. Perché vada a buon fine sono necessarie due cose: la capacità di unire saldezza strategica e duttilità tattica, e la capacità di costruire un movimento che sia veramente popolare.”

“Una gestione autonoma può avvenire solo ad alcune condizioni. Prima di tutto l’autonomia va interpretata non come indifferenza ai rapporti internazionali ma come libertà di scegliere i rapporti più confacenti agli interessi del paese. È poi necessario disegnare uno spazio in cui sia possibile attuare una politica di tipo socialista, ossia uno spazio relativamente aperto agli scambi internazionali ma chiuso ai movimenti incontrollati del capitale finanziario. Il momento della rottura con Bruxelles deve insomma essere accompagnato da un progetto di unione euromediterranea che unisca e rafforzi i paesi oggi più danneggiati dall’Unione europea. Ma proprio perché una tale unione sia duratura, e quindi si basi su una mediazione comprensiva di tutte le posizioni, è necessario definire quell’interesse nazionale che oggi è intrecciato a quello dei lavoratori, e che proprio per questo viene eluso o tradito dall’attuale ceto politico”.

Si tratta di una operazione complessa che richiede la presenza di un gruppo dirigente coeso e capace di grande elaborazione strategica, ma anche di notevole mobilità tattica: esiste? Una domanda lecita se solo ci guardiamo intorno.

Se, come sostengono gli autori, “Essere nazione è oggi un destino, un destino che può essere declinato in modi assai diversi: pro o contro i lavoratori, pro o contro la pace”, intanto, occorrono step di riflessione e lavoro che partano dalla base, dai dati esistenti, dal malcontento generale e feroce nei confronti di politici radicalchic che hanno generato un disgusto profondo, dal sapere riconquistare la fiducia dei cittadini e approdare a una visione realistica da cui partire, che intanto, rebus sic stantibus, si traduca in un opposizione seria e possibilmente, costruttiva.

Did you find apk for android? You can find new Free Android Games and apps.


LASCIA UN COMMENTO

Inserisci il tuo commento!
Inserisci il tuo nome:

Time limit is exhausted. Please reload the CAPTCHA.