Negli scatti di strada di Vivian Maier manca un pizzico di umanità

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DI ANTONIO ORTOLEVA

Dovrebbe essere la mostra fotografica dell’anno e a mio parere non lo è. Provo a spiegare perché.

Vivian Maier è una bambinaia di New York di origine alsaziana. Per mezzo secolo, sin dagli anni Cinquanta, scatta centinaia di migliaia di fotografie fra la metropoli e Chicago in special modo. Sono foto di strada, in strada. Prima con una Rolleiflex incollata al petto, poi, acquistata tramite il ricavato della vendita di un terreno di famiglia, con una più importante Leica.

Vivian è una donnona sempre sola che compare non poche volte con sguardo vitreo nei suoi autoscatti quasi ossessivi, attraverso specchi di vetrine od ombre, fantasma invisibile che si aggira per le strade americane a sorprendere un’umanità nelle sue pose quotidiane, spesso di spalle o avvolta nei propri pensieri nel cammino abituale, sguardi sorpresi o irritati davanti alla fotocamera, altre volte accoglienti con un principio di sorriso nel volto. Siamo negli anni del candore, gli anni Cinquanta, quando i bambini si stupiscono davanti a uno scatto fotografico e interrompono un pianto o una monelleria o si mettono in posa a denti stretti e collo in avanti. È la street-photografy esposta in 120 immagini sino al 2 febbraio a Palazzo Valle a Catania (via Vittorio Emanuele 122), sede della Fondazione Puglisi-Cosentino, spazio stabile di eventi culturali importanti. Una mostra che sta facendo il giro del mondo.

Vivian Maier non fu mai riconosciuta in vita. Anzi, mentre il suo tesoro in negativi, libri e rullini non sviluppati conservato in 200 cartoni veniva battuto all’asta per meno di 400 dollari, la vecchia tata che parlava francese senza un soldo e senza una famiglia, seppur assistita amorevolmente dagli ultimi suoi due ex bambini, finì in ospedale per una brutta caduta e non fu più la stessa con la testa, sebbene la sua vita solitaria si era trasformata in solitudine. Quell’immenso archivio di cui non si curò e del quale, forse, volle disfarsi, fu acquistato da un giornalista freelance che cercava materiali su Chicago e che ora possiede la collezione più osannata del momento.

Vivian morì due anni dopo in follia e povertà senza mai sapere di essere acclamata come una celebrità mondiale, l’antesignana della fotografa da strada, dell’iperrealismo quotidiano.

S’intuisce nelle sue foto un potente intuito che prevede il compiersi di un gesto di assoluta normalità da trasformare in affresco di un’epoca, nobilitata dal bianco e nero, nel più eminente teatro di posa d’occidente così com’erano le avenue e i vicoli delle metropoli americane del secondo dopoguerra, dove le contraddizioni sociali segnavano il picco tra una povertà assoluta e una ricchezza sbalorditiva. S’intuisce anche una indubbia tecnica fotografica affinata nel tempo attraverso i libri con una determinazione maniacale: l’uso della luce, il perfetto nitore della messa a fuoco istantanea, la morbidezza delle forme umane, il tempo sospeso come nei quadri di Magritte.

Ci sono delle immagini magnifiche tra quelle esposte a Catania, alcuni capolavori, come il primo piano della bambina dalle guance sporche, sono individuabili come tali e non era impossibile rintracciarli tra le centinaia di migliaia di scatti ritrovati.

Manca invece la poetica del quotidiano, quell’umana pietà che sopravviene anche verso gli individui più perdenti del globo, manca una colta presa di posizione sul mondo di cui preferisci cogliere solo gli aspetti curiosi. Vivian non prende in giro la vita, la guarda da una toppa della serratura sperando che nessuno si accorga di lei. La vita invece l’ha scoperta anche se tardivamente come fece per Emilie Dickinson, alla quale è stata equiparata anche nel docufilm sulla storia di questa donna eccentrica, che si è candidato all’Oscar.

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