Qualche anno fa Geapress riportava questa notizia su Palermo: “Via Ernesto Basile, la strada che separa i padiglioni universitari ed un quartiere di sottoproletariato senza speranza. Per la corsa è tutto pronto. I calessi partono veloci protetti dal solito codazzo di decine di scooter, ma appena arrivati, già sfiniti dalla salita, sotto la casa dello studente qualcosa non va. Il calesse di sicuro si rompe, un pezzo colorato è ancora sul marciapiede, ed il giovane cavallo cade a testa in giù rompendosi il muso e lacerandosi il collo sul bordo del marciapiede o in pezzi di calesse. Attimi concitati, la corsa deve durare il meno possibile, potrebbe arrivare la Polizia. Il cavallo è ancora vivo. Perde copiosamente sangue. Viene tirato per le zampe sul marciapiede, si contorce, sputa sangue, infine allunga il collo e muore guardando la strada. Tutti via, di corsa, con i resti del calesse”.
Il fatto grave è che queste notizie ormai sono quotidiane, ed è come se nulla fosse.
E’ di ieri la foto che sui social ha fatto giri immensi per poi tornare alla cronaca quotidiana da dimenticare, è stato solo un attimo di smarrimento per la ferocia insostenibile dell’immagine, per la pena che suscita il cavallo morto da poco, accanto ai cassonetti della spazzatura, con gli occhi aperti a guardare quell’asfalto che gli ha spaccato il cuore.
Da dove provengono i cavalli? Ci chiediamo. Da Danisinni o da Ballarò, oppure dalla Zisa, come dall’Oreto, da tutta Palermo, insomma. Perché l’intera città ospita stalle abusive. Le Forze dell’Ordine sequestrano, ma la politica ha altre priorità. I fantini non sono stupidi, sanno perfettamente che il Codice della Strada li autorizza a percorrere con il calesse le strade asfaltate delle città. Finché non competono, non gli si attribuisce se non piccole sanzioni amministrative e se poi “competono”, il Codice della Strada li considera molto meno di una corsa clandestina di automobili, e la legge contro i maltrattamenti sugli animali è blanda, è morbida, è comprensiva e a nessuno, quando è stato riformato il Codice della Strada, è venuto in mente che gran parte dell’Italia percorre con i calessi da corsa le strade, pure nel traffico urbano. Per il Codice sono “veicoli a trazione animale”, e punto. Come in una società ottocentesca e pastorale mai evoluta.
I cavalli spesso provengono dalle scuderie degli ippodromi: vengono acquistati all’età di 4-5 anni al prezzo di circa 800 euro e riciclati in strada nelle corse e nelle carrozze per i turisti. Sono quasi sempre le stesse stalle anche se alcune sono specializzate solo per le corse. Poi, quando il cavallo non tira più, finisce macellato, ricavandoci più o meno lo stesso prezzo dell’acquisto. L’ultima corsa in notturna in via Ernesto Basile, è stata bloccata dalla Polizia di Stato, senza grandi risultati. Poi ci sono gli allenamenti, quasi sempre il mercoledì ed il sabato di tutte le settimane: i calessi vengono lanciati al galoppo nel traffico della tangenziale (se rispettano il limite di velocità il Codice della Strada glielo consente) e dietro, in macchina, gli stallieri con il cronometro. Spesso, poco prima di entrare nel circuito, (visto da varie persone) qualcuno con uno scooter si avvicina al cavallo e mette qualcosa tra il muso ed il naso. Si dice che sia cocaina.
Se proviamo a chiedere ai ragazzi del quartiere Ballarò, nel pieno centro storico di Palermo, come in tutti gli altri quartieri, nessuno sa niente. In un certo senso se i resti della macellazione si ritrovano è merito dell’AMIA, l’azienda municipalizzata di Palermo che provvede alla raccolta dei rifiuti, ma il cavallo è un “rifiuto speciale” e la stessa Amia lo lascia lì, salvo avvertire i carabinieri e i veterinari dell’ASP. Angoli, come quello tra via Mongitore e via Villanueva, sono luoghi di accatastamento di immondizia, angoli come tanti altri in città. Se in questi giorni non avessero tardato la raccolta nessuno si sarebbe accorto del povero cavallo.
Poco tempo fa un altro cavallo finì su una automobile a Tommaso Natale, un altro quartiere palermitano: quando arrivarono i Carabinieri il calesse era già scomparso. Il cavallo, invece, che fece piantare i freni al treno metropolitano rimase lì, anche lui come gli altri, fino a quando il fetore o lo sguardo attonito dei bambini non fecero arrivare le forse dell’ordine.
Sono cavalli di Nessuno. Ma Nessuno è il nome di Ulisse.
All’Albergheria di Palermo c’è una bella biblioteca per ragazzi, si chiama “Le Balate“, prendendo il nome dalle pietre che lastricano la strada e dalla Chiesa che l’accoglie: lì si può ascoltare qualcuno che ci racconta una storia – la nostra storia. Che ce la racconta a voce alta, che racconta noi a noi stessi: è un modo di nascere, un riconoscimento. Non sono storie da ascoltare, ma da sentire, alla maniera di Ulisse, perché possano indurre quell’emozione che risveglia a se stessi. Anche alle Balate ci sono piccoli eroi, anche lì ci sono cavalli, ma di legno, in cui entrare e serrarsi vicini e aspettare il momento buono per cambiare le cose. “Solo una volta, nell’Odissea, Ulisse piange: ed è quando, ospite in incognito di Alcinoo, siede ad un banchetto organizzato in suo onore e ascolta l’aedo Demodoco che canta senza saperlo le sue stesse gesta, l’espediente del “gran cavallo di legno dove sedevano tutti i più forti degli Argivi portando la morte, la nera Chera, ai Troiani”. Ulisse si commuove e le lacrime bagnano le sue guance: la guerra, i compagni, la morte, lui stesso. ‘Non aveva mai pianto prima’ commenta Hannah Arendt, ‘certo non quando i fatti che ora si sente narrare erano realmente accaduti. Soltanto ascoltando il racconto egli acquista piena nozione del suo significato’. Ma i cavalli di legno nascono da quelli veri, come certe storie nascono dai miti: e ce n’era una volta uno, c’era una volta un cavallo. Era bello e intelligente come tutti i cavalli, e negli occhi aveva la limpidezza di sguardo che ce li fa sentire amici e confidenti, perché sono come noi, i cavalli, anzi come i migliori tra noi. (…) Questo cavallo viveva all’Albergheria, che è l’antico quartiere in cui sorge la Biblioteca. I suoi proprietari ne avevano decretato il destino: sarebbe diventato un cavallo da corse clandestine. All’Albergheria non ci sono stalle e nemmeno terreno: i cavalli vivono rinchiusi chissà dove, e poi di notte o alle prime luci dell’alba escono per le corse, dopati per vincere. Nessuno lo sa ma lo sanno tutti.
“Un giorno in cui infuriava lo scirocco, uscendo dalla Biblioteca abbiamo visto i cassonetti che perdevano sangue, raccontano i bambini: sono arrivati i carabinieri e hanno scoperto che dentro c’era il cavallo a pezzi, squartato. Gli sarà scoppiato il cuore, e non potendo dichiararne la morte, i “proprietari” lo hanno buttato come un rifiuto qualunque. E’ stata chiamata l’AMIA, che ha svuotato i cassonetti ma ha lasciato il cavallo a pezzi sul marciapiede, coperto da alcuni stracci, perché essendo un rifiuto “speciale” non era di loro competenza. Il vento ha portato via gli stracci, e il cavallo è rimasto là, la bella testa con la nobile criniera e l’occhio non più limpido ma fisso e sanguigno, come quello dei pesci andati a male. Il caldo ne accelerava la decomposizione. Poi, di notte, qualcuno lo ha bruciato perché puzzava, e l’indomani c’era la carcassa carbonizzata: là, sul marciapiede, tra la scuola elementare e l’asilo, sotto gli occhi di tutti”. I bambini, che in Biblioteca frequentano fra gli altri anche un laboratorio di teatro, hanno chiesto di drammatizzare questa storia. Uno di loro, un bambino che ama la poesia “perché serve per incantare le femmine” è andato in Biblioteca e ha detto “I cavalli sono belli, io li conosco. Voglio fare io la parte del cavallo morto”. E allora il cavallo di carne e sangue s’è fatto di legno ed è diventato un espediente, e tutti i bambini ci sono entrati dentro (…) stretti gli uni agli altri, e hanno riscritto la storia, raccontandola; e il cavallo è diventato un personaggio del circo, un cavallo funambolo – e bisognava vederlo quant’era bravo: alzando la testa e lo sguardo lo si seguiva mentre incedeva nobile sul filo, ma poi quel filo si spezzava, perché può succedere, e il cavallo cadeva e moriva; però gli spuntavano le ali, perché era abituato a volare, e così poteva decidere lui dove andare. E così un giorno dalla Biblioteca è uscito il bambino vestito da cavallo con le ali, seguito da tutti gli altri che erano stati insieme a lui dentro il cavallo di legno della fantasia, e tanti altri andarono apposta a vedere lo spettacolo, c’erano persino alcuni giornalisti; e la gente e tutti quanti, mamme e papà dei bambini e nonne e nonni e chissà, anche proprietari di cavalli – tutti hanno visto la storia del cavallo che aveva le ali perché era un bambino, un loro bambino, e c’era anche un cavallo vero, che col muso ha salutato il cavallo bambino, e per un istante tutto s’è fermato. Cosa stava accadendo? Qualcuno guardava da dietro le persiane socchiuse, qualcuno si affacciava ai balconi, per un istante c’è stato silenzio. Poi cavallo vero e cavallo bambino hanno distinto i loro destini, ma le ali sono rimaste per ricordo.
E’ una storia vera raccontata da bambini che spesso non vanno a scuola, come un bambino che una volta è entrato in Biblioteca di mattina e non sapeva leggere, anche se aveva 10 anni. “Come mai non sei a scuola?” gli è stato chiesto “Perché lavoro”, rispose. “E che lavoro fai?” “Faccio volare le colombe ai matrimoni”. “Quando lavoravo al restauro della ex fonderia ho avuto modo di vedere uno di questi cavallini rinchiuso in un locale angusto e buio, tutte le mattine veniva un giovane ad accudirlo e farlo muovere un poco e poi di nuovo il buio … una gran pena, ma anche io ho girato la testa dall’altro lato”.
La Biblioteca dei Bambini e dei Ragazzi Le Balate fa un gran lavoro e svolge un grande compito: insegna ai bambini, pure a quelli che a scuola non vanno e soprattutto a loro, a guardare la vita con altri occhi, ad agire, “a non voltare la testa dall’altro lato”.
Ringraziamo Daniela Thomas per aver riportato questa storia, e gli uomini e le donne che lavorano alla Biblioteca dell’Albergheria.