Nutrire il cuore delle persone con il digitale, la questione Enzo Bianchi

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“La sobrietà è una virtù rara/ che si contrappone all’eccesso nel possedere/ al senso di onnipotenza/ alla voracità consumistica/ e riguarda tutta la vita:/ per questo non è amata/ né dalla politica né dalla religione”.

Questo è l’ultimo”cinguettìo”di Enzo Bianchi che possiamo leggere dalle pagine del social Twitter. Nonostante prediliga i rapporti umani, l’incontro con le persone, fa questa cosa stupefacente per un uomo della sua età: non disdegna i rapporti virtuali attraverso i social network, ha un profilo molto seguito e ogni giorno lui stesso posta un “cinguettio”; ha 24 mila follower e ogni tweet raggiunge 40-50 mila visualizzazioni, con una media di 180-200 risposte, quasi sempre, di apprezzamento.

In poche parole, riesce a nutrire il cuore delle persone con il digitale.

Personalmente ho conosciuto Enzo Bianchi anni fa a un seminario veneziano, avevo vinto un premio letterario e lui, insieme alla redazione della casa editrice Einaudi costituivano la giuria; inutile dire che il bello di quel premio furono quelle lezioni tra letteratura e società che ognuno di loro tenne in vari atenei, ma in particolare mi affascinò non poco quella di Enzo Bianchi che con la semplicità che ancora oggi lo distingue, incantò una platea parlandoci di tolleranza e inclusione del diverso, di comprensione dell’altro, di ascolto. Quella voce rauca e il dono della Parola di quell’uomo, di cui non sapevo nulla, mi rimasero nel cuore al punto da spingermi ad indagare sulla sua vita. Fu così che ho scoperto l’esistenza del Monastero di Bose di cui a lungo è stato priore, diciamo fino allo scorso anno quando, all’età di 75 anni, ha passato il testimone a monaci più giovani di lui. Quindi, andando a ritroso, ho voluto conoscere la sua storia.

Suo padre fu Giuseppe Bianchi, un fermo sostenitore della lotta partigiana, mentre la madre, Angela, aveva accettato di portare a termine quella gravidanza pur consapevole che avrebbe aggravato le sue precarie condizioni di salute. All’anagrafe il bambino viene registrato come Enzo, per volere del padre che intendeva evitare il nome di un santo, ma la madre al battesimo fa aggiungere il nome di Giovanni (del resto, Enzo è l’italianizzazione del tedesco Hans, diminutivo di Johannes). Già nel nome si delinea quella che sarà una costante dell’infanzia di Enzo: la complementarietà tra un padre che si professava ateo e coltivava un profondo senso di giustizia e di attenzione ai più poveri, e una madre di profonda fede cristiana, convinta – come dirà al piccolo Enzo poco prima di morire – che “di là potrò fare per te molto di più di quello che ho fatto di qua”.

A undici anni Enzo crederà di dover seguire la propria strada di cristiano entrando nel seminario minore di Acqui, ma quel luogo così austero, quelle pratiche così rigide rispetto alla schiettezza degli insegnamenti ricevuti e la lontananza dal paese lo porteranno entrambe le volte a fuggire, letteralmente, nel giro di una settimana. A neanche diciotto anni Enzo non solo aderisce al movimento giovanile democristiano ma si industria per un miglioramento delle condizioni di vita dei suoi compaesani e solo con il ricavato della vendita dei propri quadri si potrà permettere di compiere gli studi di Economia e Commercio all’Università di Torino. E lì, tra un esame e l’altro, si apre una nuova stagione della sua vita: i prodromi del sessantotto, certo, ma soprattutto la condivisione della stagione conciliare con un gruppo di cristiani di diverse confessioni e la possibilità di coltivare profonde amicizie con persone estranee o marginali rispetto all’ambiente cattolico. L’amicizia con il priore fr. Roger Schutz, il lavoro con l’Abbé Pierre e i suoi straccivendoli a Rouen, la scoperta della teologia e della spiritualità di area francese, l’anelito verso l’unità della Chiesa, il convinto maturare di una vocazione monastica ispirata a san Basilio – le cui Regole aveva potuto leggere già quattordicenne – conducono Enzo a Bose, un gruppo di case abbandonate sulla Serra di Ivrea a pochi passi da una chiesa romanica in rovina. I compagni di cammino e gli amici sono pronti a dargli una mano, a ripulire e rendere atta al culto la pieve di San Secondo, ma non sono poi disposti a seguire Enzo quando decide di iniziare una vita comune stabile nel celibato. Per Enzo iniziano così tre anni di solitudine e di crogiolo nel quale temprare il suo desiderio di vita monastica, attingendo alla Scrittura e alle fonti del monachesimo dei primi secoli. L’abbandono sia della carriera universitaria che dell’attività politica, l’estrema povertà della casa – senza riscaldamento né acqua potabile né elettricità –, l’ostilità dell’allora vescovo di Biella, la benevola paternità dell’arcivescovo di Torino, padre Pellegrino, l’incontro a Istanbul con il patriarca ecumenico Athenagoras I, le soste in monasteri come Tamié, Taizé e in cenobi ed eremi del Monte Athos, la lettura dei rari scritti di sorella Maria di Campello, la frequentazione del suo eremo e l’amicizia con Marie-Claire e le altre sorelle, la vicinanza saltuaria di pochi amici, segnano le giornate scandite dalla preghiera e dal lavoro. Finché, tra l’estate e l’autunno del 1968, avviene un’altra svolta: due persone si affacciano ai casolari di Bose chiedendo a Enzo di condividere la sua scelta di vita. Ma uno di loro è un pastore riformato svizzero e l’altra una giovane donna di Ivrea. Che fare? Avviare una vita comune nel celibato con fratelli cattolici e protestanti, con uomini e donne insieme? Quando poco dopo un altro giovane di Novara bussa alla loro porta per sostare qualche giorno in ritiro, la decisione è già presa: aveva inizio la vicenda di Bose, una comunità monastica ed ecumenica di fratelli e sorelle. Subito dopo redigerà la Regola (che sarà approvata dal vescovo e sulla quale i primi sette fratelli emetteranno la loro professione monastica definitiva nell’alba di Pasqua del 1973). A Bose, fino ad oggi, si è cercato di evitare ogni appiattimento sulla figura del fondatore, si è rifuggita la tentazione di clonare modi di esprimersi: la Comunità, il suo ritmo di preghiera, lavoro, accoglienza e dialogo, le ore lunghe di Silenzio, la sua crescita fino alle attuali dimensioni – un’ottantina di fratelli e sorelle cattolici, protestanti e ortodossi di varie nazionalità, presenti oltre che a Bose anche a Ostuni, Assisi, Cellole e Gerusalemme – e il ministero di priore che Enzo ha svolto con saldezza e discernimento, il suo prodigarsi dentro e fuori Bose affinché il Vangelo possa essere portato alla conoscenza di tutti, l’attività infine di predicazione che svolge da quarantacinque anni in Italia e all’estero al servizio delle Chiese locali e delle comunità religiose, hanno fatto di Enzo Bianchi un punto di riferimento per moltissime donne e uomini, italiani e non.

Importanti sono il suo ruolo di relatore in dialogo con il mondo della cultura e dell’arte, la sua intensa attività di pubblicista, la sua costante ricerca dell’unità della Chiesa oltre ad essere stato membro della redazione della rivista teologica internazionale “Concilium” e aver diretto, per una decina d’anni, il semestrale biblico “Parola, Spirito e Vita”, per volontà del fondatore don Giuseppe Dossetti; l’essere stato presidente dell’Associazione per lo sviluppo delle scienze religiose in Italia di Bologna (diretto da Giuseppe Alberigo) e di essere membro a vita del consiglio della Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII. Nel 2000 l’Università di Torino, che lo aveva avuto come studente negli anni sessanta, gli conferisce la laurea honoris causa in Scienze politiche: nella lectio magistralis tenuta per l’occasione, Enzo Bianchi affronterà un’altra costante del suo coinvolgimento culturale e di fede, parlando di “Chiesa e Israele: la svolta nelle relazioni”.

Ma la storia di Enzo Bianchi ha i suoi detrattori, neanche a dirlo, tra i più ortodossi cristiani che difendono l’immobilismo secolare della Chiesa contro lo stesso Papa Francesco che invece, dal canto suo, ne ha una grande stima tanto da poter dichiarare: “Noi siamo nell’epoca della globalizzazione, e pensiamo a cos’è la globalizzazione e a cosa sarebbe l’unità nella Chiesa: forse una sfera, dove tutti i punti sono equidistanti dal centro, tutti uguali? No! Questa è uniformità. E lo Spirito Santo non fa uniformità! Pensiamo al poliedro: il poliedro è una unità, ma con tutte le parti diverse; ognuna ha la sua peculiarità, il suo carisma. Questa è l’unità nella diversità. È in questa strada che noi cristiani facciamo ciò che chiamiamo col nome teologico di ecumenismo”, trovandosi in perfetta sintonia con Bianchi, con la sua attività e il suo punto di vista.

Dalle pagine online di “Riscossa cristianaPaolo Deotto sottolinea “l’equivocità” del caso Bianchi: “Il sig. Enzo Bianchi è un privato cittadino che ha fondato una comunità. (…) Naturalmente ognuno è liberissimo di fondare tutte le comunità che vuole e nominarsene priore. Nel caso specifico del sig. Bianchi e della comunità da lui fondata, nasce già una prima situazione equivoca, perché fin troppo spesso si parla di comunità monastica, ma è difficile capire cosa abbia a che fare con questa definizione una comunità che raccoglie uomini e donne, e cattolici insieme a protestanti appartenenti alle diverse sette in cui si è frantumata – inevitabilmente – l’eresia luterana. (…) Però c’è una parola magica: ecumenismo. E allora ecco che abbiamo la comunità ecumenica o interreligiosa, o chiamatela come volete. Ma da qui a “monastica”, ce ne corre…(…) Dalla sua stessa biografia possiamo evincere che il sig. Bianchi è un discepolo di quella famosa “Scuola di Bologna” che in quanto a semina di confusione si è data molto da fare. (…) Sta di fatto che il sig. Bianchi è diventato membro di importanti organi ecclesiastici, ha scritto libri, predica di qua e di là, e questo ha fatalmente fatto sorgere un altro equivoco: il sig. Bianchi è un sacerdote, visto che predica e questa facoltà spetta a un consacrato. Ergo, lo si dovrebbe chiamare Don Enzo Bianchi, se sacerdote secolare, o Padre Enzo Bianchi, se religioso che ha ricevuto il sacramento dell’Ordine. (…) Invece il sig. Enzo Bianchi è il sig. Enzo Bianchi, punto e basta. È anche ragioniere, e forse laureato in Economia e Commercio. Scrivo “forse” perché dalla sua biografia non si capisce se abbia portato a termine gli studi universitari. È chiaro che gli studi fatti dal sig. Bianchi non sono di alcun interesse. È invece importante che sia chiaro che il sig. Bianchi è un privato qualsiasi (…) che è un privato cittadino che esprime pareri, opinioni. Che, se ancora le regole fossero almeno vagamente seguite, non potrebbe assolutamente predicare in chiesa. Ha la stessa autorevolezza e autorità che potrebbe avere chiunque di noi, privati cittadini, che domani volessimo entrare in chiesa e predicare. Con una sola differenza. A noi toglierebbero subito la parola (giustamente, peraltro). Il sig. Bianchi, per motivi che non ci interessa qui indagare, invece trova ovunque accoglienza e ascolto”.

E questa sembra essere l’unica innegabile evidenza tra le varie affermazioni di Deotto, “trova ovunque accoglienza e ascolto”.

Indirettamente, attraverso una recentissima intervista rilasciata al Sole24Ore, Enzo Bianchi sembra replicare con serenità alle insinuazioni sul suo conto, sulla sua attività:

“Il monachesimo ci fa conoscere l’ateismo. Il nulla che a volte ci abita. Esperire questi momenti e poi risalire è una grande esperienza”. (…) A volte arriva qualcuno per confessare dei peccati terribili, di cui si è vergognato persino di confessarli in chiesa. Alla sera, quando mi capitano incontri così, mi sento esausto. La società sempre connessa ha bisogno di questo, forse. Di un contatto, di parlare, di un incontro, di riconciliarsi. Dei tanti che vengono qui ogni anno il 60% sono cristiani, il 40% non credono. Tutti chiedono di essere ascoltati”.

Sul momento difficile che sta vivendo il mondo con i conflitti, le guerre religiose, gli attentati terroristici, confida di avere molta paura: “Da 20 anni avanziamo a piccoli passi verso la barbarie. Il disprezzo per gli avversari, gli uni contro gli altri, ti dice della corruzione di un clima. Quando c’erano le ideologie il mondo era diviso in due ma il rispetto per l’avversario c’era sempre. Ora è tutto frammentato da tensioni xenofobe e localistiche , che sono delle vergogne, da indifferenza più assoluta.” (…) “Ma abbiamo anche noi delle responsabilità: dove piglia le armi l’Isis? Gliele diamo noi. Questa è la follia umana. Dopo i disastri delle due guerre mondiali del Novecento siamo tornati al punto di partenza”.

Non abbiamo bisogno di un’ONU delle religioni, per Enzo Bianchi, bensì di re-imparare l’arte dell’ascolto, del rispetto dell’altro, del dialogo cordiale, del riconoscimento della qualità umana e spirituale sia di chi incontriamo nelle nostre esistenze sia di chi vorremmo evitare di incontrare per non essere richiamati alle nostre responsabilità personali e collettive. Per Bianchi, naturalmente, non v’è contraddizione tra fedeltà alla Chiesa e attaccamento all’istanza di laicità. Il priore critica la laicità alla francese, ma la “giusta laicità” sarebbe di “grande giovamento alla Chiesa”. I cristiani vi troverebbero protezione contro l’utilizzo della fede come “religione civile”, termine con cui designa l’uso strumentale della religione da parte di quanti “misconoscono nuovamente la distinzione tra Dio e Cesare”. Sullo sfondo del conflitto attuale evoca ancora gli eccessi del cesaropapismo e della teocrazia latina medievale. Vi sarebbero, secondo Bianchi, forze che vogliono un ruolo dominante della Chiesa, cioè che non vogliono che la Chiesa mantenga viva la forza profetica, la memoria eversiva del Vangelo. Le istituzioni religiose verrebbero piegate alla “mediazione”, con una vicendevole “strumentalizzazione” di poteri religiosi, politici e sociali. Tutto ciò sarebbe contrario alla parola, profezia liberante, che chiede la rinuncia agli idoli societari.

Ci vuole un’insurrezione delle coscienze e degli animi per dire basta a questa barbarie. Intanto cominciamo a mangiare insieme e dividere la tavola. Fare famiglia. Vuol dire contribuire, nel nostro piccolo, a fare avanzare l’umanità”.

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