Poesia senza fine

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Nel darmi niente mi hai dato tutto

Non amandomi mi hai rivelato l’assoluta presenza dell’amore

Negando Dio mi hai insegnato a valorizzare la vita

Grazie alla tua crudeltà ho potuto conoscere la compassione

Ti perdono padre mio

Extremaunción – Alejandro Jodorowsky, Poesia senza fine

La maggior parte dei nostri conflitti, disordini, pulsioni e contraddizioni, si formano a causa dell’identificazione con figure parentali che ci hanno marcato e alle quali continuiamo ad essere fedeli sebbene ci risulti doloroso, paralizzante o autodistruttivo. A loro volta questi personaggi ai quali siamo fedeli, si identificarono ad altre figure anteriori, formando una catena di ereditarietà nei conflitti. In maniera più o meno maggiore, tutti manteniamo una fedeltà inconscia alla nostra storia familiare, al clan o alla tribù. Ciò che abbiamo ricevuto dai nostri genitori lo trasmetteremo ai nostri figli e così via di generazione in generazione, segnando il destino individuale di ogni personaggio dell’albero. Studiando il nostro albero genealogico troviamo piste, situazioni, attitudini e posture che si ripetono di generazione in generazione, fino a giungere a noi. Questo forma un’inconscia costellazione familiare che finisce con il condizionare completamente la nostra attuale esistenza, che agisce direttamente in noi guidandoci fino ai conflitti non risolti con il fine di portarli alla luce e liberarci di essi. Per questo motivo l’albero ha la tendenza a ripetere il blocco o la resistenza da una generazione all’altra: rompere questo gioco di ripetizioni familiari per riconquistare la nostra libertà individuale comincia con il conoscere i fatti della nostra storia, le circostanze e i vincoli creatisi con i nostri antenati. Non si tratta di tagliare le radici del nostro albero, bensì comprenderle meglio e disfare i nodi nevrotici che si sono creati.

Il primo punto per cominciare questa investigazione è disporre di importanti informazioni sui nostri antenati fino alla quarta generazione (bisnonni): nomi, professioni, hobbies, date di nascita e morte, aborti, decessi, segreti familiari, depressioni, malattie, fallimenti, suicidi, insomma peculiarità della costellazione familiare. Una volta analizzato un albero genealogico e compresa la sua struttura, si giunge all’albero organico ossia alle conseguenze che l’albero genealogico lascia nella nostra personalità e nel nostro corpo, che si manifestano attraverso i gesti, le espressioni, le posture, le attitudini, la respirazione. Il progetto parentale esiste, i genitori hanno un progetto su di noi al quale si cerca di obbedire metaforicamente; una realtà immaginaria, per il cervello, è assolutamente reale quanto quella oggettiva: se una donna nasce quando in realtà desideravano nascesse un maschio, finisce in genere per comportarsi come un uomo. Se ci identificano con una nonna, uno zio o con la pecora nera della famiglia, ci si comporterà probabilmente secondo quelle aspettative malgrado la nostra realtà sia completamente diversa. Questo costituisce una forma di aggressione inconscia dei nostri genitori che finisce con il tradursi in un’architettura emozionale, sessuale, corporale e intellettuale quasi predefinita, pone le basi della nostra cultura psico affettiva: se ieri fummo torturati, oggi non cessiamo di torturarci, trasformandoci nel nostro proprio aguzzino.

Se l’inconscio obbedisce a un linguaggio metaforico e non distingue il mondo interiore dove vive dal mondo esterno dove si proietta, Alejandro Jodorowsky ci rassicura attraverso gli atti psico magici e le operazioni metaforiche sul corpo fisico, per mezzo dei quali sarà possibile liberare il nostro inconscio da blocchi e traumi ereditati, in genere, dalla storia familiare.

Molti di noi conoscono questo straordinario scrittore, fumettista, saggista, drammaturgo, poeta e regista sia teatrale che cinematografico semplicemente come artista/guru, che ha proseliti in tutto il mondo;  il suo miracolo d’umanità in “Poesia senza fine”, (film che a Palermo è possibile vedere al Rouge Noir), rappresenta la “summa teologica” della sua vita vera, un’opera autobiografica in cui attraverso le sue vicende personali racconta il periodo tumultuoso vissuto in Cile, sua terra d’origine, negli anni ’70. E’ il secondo capitolo autobiografico e parte proprio da dove si era fermato il precedente La danza della realtà, che prima di diventare film era un romanzo.

Il suo indiscusso carisma, a 87 anni, gli ha permesso di produrre un film sfruttando le piattaforme di crowdfunding come lo avrebbe fatto un ventenne nativo digitale. Per ringraziare i finanziatori, ad esempio, ha avuto la geniale intuizione di pubblicare letture dei tarocchi ad personam su YouTube, con un successo da far invidia al migliore degli influencers 2.0.

Se anche l’impianto del film è molto teatrale, se i set sono molto poveri, se i costumi sono molto kitsch il racconto è, invece, affascinante, pieno d’inventiva, idee, di poesia: per la messa in scena l’autore attinge dal teatro giapponese del Bunraku (prendendo in prestito l’uomo ombra che si muove per spostare gli oggetti quando non servono più), dall’esperienza del circo la pantomima e il gusto per il costume esagerato, la magia dai miti e dalle leggende cilene. Il risultato è una meraviglia che commuove ed emoziona, un dono d’amore e di umanità sempre più raro nel cinema quanto nella vita quotidiana reale.

Ritroviamo dunque nell’incipit il piccolo Alejandro là dove lo avevamo lasciato nel finale del film precedente ovvero sul battello che lo allontana, insieme ai genitori, dalla natia Tocopilla. Ma a Santiago, dove i genitori gestiscono un negozio di abbigliamento, il piccolo Alejandro non riesce proprio ad ambientarsi, il padre osteggia la sua passione per la poesia e lo vorrebbe medico, la madre è oramai succube tanto del marito, quanto dell’anziana matriarca, e non le rimane che gorgheggiare il suo malessere. Alejandro invece una scelta ce l’ha: crescere, “uccidendo” (idealmente) il padre, abbattendo (materialmente) il suo albero genealogico, infine allontanandosi dalla patria. Ora può essere finalmente un poeta, un maestro di se stesso, un fautore del proprio destino, ha rielaborato la memoria attraverso lo specchio distorto dell’immaginario che col vivere, appassionatamente, tragicamente, si è via via costruito.

Racconto di formazione, Poesia senza fine è un film sconnesso e divagante ma proprio per questo riesce a rendere al meglio quel percorso di assorbimento ansiogeno, avido che caratterizza la nascita di un artista. “La vecchiaia è distacco”, ci dice lo Jodorowsky adulto, qualcosa che comporta necessariamente una perdita, così come l’ingresso nell’età adulta è un carnevale dionisiaco dove a portarci in trionfo sono creature dalle fattezze mortifere.

A dir la verità, Alejandro è già di per sé un atto psicomagico ambulante, un personaggio eminentemente “panico”, le cui caratteristiche sgretolano l’ordine del nostro universo, in apparenza così prevedibile” ebbe a dire di lui Gilles Farcet. In “Poesia senza fine” ad interpretare il giovane Alejandro Jodorowsky, è il figlio Adan Jodorowsky, che aveva già lavorato con il padre nel film “Sangue santo“; Brontis Jodorowsky, l’altro figlio del regista, interpreta invece Jamie, il padre del protagonista. Per il ruolo di Stella Diaz, la poetessa amante di Alejandrito, è stata scelta l’attrice Pamela Flores.

“Viviamo in un mondo materialista, dove la morale è davvero la grande assente (…) erriamo in un mondo materialista costruito sul furto, la competizione, lo sfruttamento, l’egoismo (…) Tutto è predisposto in modo da impedire alla coscienza di svilupparsi, perché la coscienza disturba, confonde. Il sistema scolastico mantiene i bambini a un livello distante dalla presa di coscienza, un livello che impedisce al mondo di cambiare. Esiste una evidente cospirazione che tende a mantenere il mondo così com’è, su fondamenta prive di morale. (…) Mi sono chiesto se mettersi a lavorare per “guarire” il mito potesse contribuire a creare una nuova morale in grado di raggiungere la coscienza collettiva, una morale non basata sulle nozioni di bene e male, ma su quella di Bellezza. (…) Il mito cristiano, il più diffuso, non può essere ridotto a una visione determinata, fissa, prestabilita. Funziona come un simbolo, pertanto non può essere colto intellettualmente, funziona come uno specchio che descrive avvenimenti inconsci. La sua lettura deve passare tramite il linguaggio emotivo, il linguaggio del cuore”.

D’altronde, come nascono i miti? Dapprima qualcuno li sogna; poi quei sogni diventano canti; in seguito qualcuno li trasforma in poemi; infine, qualcun altro li scrive nei Libri che diventano Sacri. E da dove provengono quei sogni iniziali? Forse dalla divinità stessa (se siamo credenti) o dagli archetipi (se non lo siamo). Così come il ragno tesse la tela, noi fabbrichiamo sogni. E’ questo il mito fondatore che sostiene tutta la società. E contro i sogni si erige il potere, l’egoismo. “Ogni frase del Vangelo è perfetta e contiene un insegnamento. Il mio progetto è stato quello di guardare il testo con l’occhio dell’artista. (…) Mi sono proposto di essere fedele alle scritture, di non mettere in dubbio le loro affermazioni, di non cercarne i lati negativi né di esprimere la minima critica distruttiva, di non ferire la sensibilità religiosa, di non essere blasfemo e, soprattutto, di esaltare il testo sottolineandone la bellezza. Io non posso cambiare nemmeno una lettera del mito; posso tuttavia modificarne l’interpretazione, porla al nostro attuale livello di coscienza e nella prospettiva dell’umanità futura”.

Jodorowsky è l’ultima frontiera vivente del surrealismo: grande ammiratore di André Breton, negli anni 60 entra in contatto con una guaritrice messicana, Pachita e ne osserva i metodi che utilizza per guarire i suoi “pazienti” che, se non hanno alcun valore dal punto di vista della medicina tradizionale, contengono una forza che li pervade tale da portare spesso il “paziente” a reagire, a intraprendere egli stesso la strada per una guarigione, per ritrovare una forza positiva dentro di sé oppure, paradossalmente, per un’accettazione serena della malattia. Jodorowsky, profondamente affascinato da un metodo di cura tanto caratterizzato da intrigante mistero e nello stesso tempo da consapevole finzione – che pure risulta così psicologicamente appagante e quindi “necessaria” al benessere delle persone – elabora una forma d’arte che ha come fine la guarigione. La chiama “Psicomagia“. Per mezzo di quello che egli chiama “atto effimero“, propone all’interlocutore un gesto da realizzare, in apparenza privo di logica, ma in realtà carico di un dirompente impatto emotivo che lo porterà a vedere e percepire la propria realtà da un punto altro, diverso e nuovo. In seguito, l’interlocutore, realizzando il gesto proposto dallo “psico mago”, spezzerà la quotidianità con i suoi problemi e il suo personale vissuto, per arrivare a una nuova percezione del problema stesso. Il gesto psicomagico è dunque finalizzato ad essere costruttivo e positivo. Il suo è un tentativo di dare all’arte una dimensione di “guarigione”, non più meramente estetica né con fini politicizzati.

Nel libro “La danza della realtà” Jodorowsky ci racconta di come si rivolse a lui per curarsi dalla depressione un grande attore italiano. Il nome dell’attore in questione non è mai citato, ma dalle pur scarne descrizioni si potrebbe pensare a Vittorio Gassman, il quale pare si fosse rifiutato di compiere il gesto psicomagico proposto da Jodorowsky (un complesso rituale in cui doveva sgozzare un gallo sulla tomba della madre), dicendo “ma io non posso. Io sono Vittorio Gassman”. Per Jodorowsky quella fu la vera natura della depressione dell’attore, il dover “portare” un nome come un’etichetta.

Dal 2002 Alejandro Jodorowsky è Grand’Ufficiale dell’Ordine al Merito Educativo e Culturale Gabriela Mistral “Per la sua indiscussa carriera artistica e per il contributo dato allo sviluppo della cultura nazionale e in altri paesi”.

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