Lo so: di questo ultimo libro di Roberto Alajmo, L’estate del ’78, pubblicato da Sellerio con una foto di copertina davvero straordinaria, sono state scritte tantissime recensioni e probabilmente è superfluo scriverne ancora una. Scrivo subito, allora, che a Roberto sono affezionata e mi piace ripercorrere le sue pagine come fossero un viaggio nella mia memoria e nel mio tempo in cui pure Roberto ha avuto la sua parte.
Ho conosciuto Roberto Alajmo (già scrittore, giornalista e quant’altro) un autunno solare del 2000, in uno di quei luoghi di Palermo che per essere troppo belli e troppo scevri da logiche troppo commerciali, non ci sono più: Travel Cafè. Non so quanti di voi ricordano quello “spazio” polivalente in via Carducci dove entrare era naturale e uscirne tutte le volte un piccolo dispiacere subito confortato dalla promessa di tornare. Con un’amica comune (a me e Roberto) avevamo elaborato e realizzato un progetto, la creazione di un “luogo” speciale in cui fosse possibile contemplare il mondo e, in un certo senso, viverlo: un’agenzia di viaggi, una libreria del viaggiatore con mappe, cartine e atlanti e diari di viaggio, una galleria d’arte aperta alle espressioni cittadine e del mondo, ma anche un caffè dove sedersi senza fretta davanti a una ricca emeroteca e perché no, un internet point che ancora, vent’anni fa, risultava parecchio utile per “navigare” in tranquillità, ascoltando peraltro buona musica. Stilavamo ogni 15 giorni circa un programma di eventi, tra cui uno che mi fece conoscere, appunto, Roberto Alajmo: ospitare, con una certa regolarità, uno scrittore che venisse a raccontarci del suo ultimo viaggio.
Indimenticabile giornata quella in cui Roberto, davanti a uno di quei blocchi giganti di carta su un cavalletto coi fogli da svoltare e una matita in mano, con una platea non numerosissima ma affine ci raccontò il suo viaggio in Marocco. Sentimmo la sabbia calda scivolarci addosso, le voci di Marrakesh e il gusto del tè sotto il sole rovente. Erano i tempi del suo “Repertorio dei pazzi della città di Palermo” la cui lettura risultava leggera e divertente con un retrogusto amaro, dove era facile per noi palermitani riconoscere uno ad uno i personaggi che Roberto elencava, e quell’incontro ci raccontava invece un Roberto inedito, dalla voce suadente e gentile. Per me quell’uomo però non era soltanto un reduce da un’avventura marocchina, uno scrittore, un giornalista, un amico della mia amica: era (ed è rimasto) l’espressione vitale della Palermo che amo di più, quella pensante, emotiva, ironica, elegante, garbata e viaggiatrice (per togliersi di dosso il disgusto del troppo visto e salvaguardare così una distaccata lucidità, immagino).
Accingendomi a leggere il suo ultimo libro in cui parla di una madre, la sua, un improvviso cortocircuito mentale mi ha fatto tornare alla mente la lettura di Cuore di madre, che pubblicò con Mondadori nel 2003; un romanzo robusto e importante, ambientato a Calcara, un paesino dell’entroterra siciliano che somigliava tantissimo a quel piccolo paese dei Nebrodi dove mi trovavo a vivere in quel periodo, (straordinarie assonanze) nel pieno di quella che anche per me fu una lunghissima estate (“da maggio a settembre: caldo. Oppure in certi giorni: molto caldo”), quella che fa precipitare i paesi siciliani in uno stato di totale sonnolenza. Quella madre di cui leggevo mi sembrava la stessa di quella che conobbi nella realtà, la chiamavo la mamma dei Nebrodi ed era la madre di un qualsiasi Cosimo Tumminia, prototipo di un menagramo mammone, di una persona isolata, vagamente sinistra, taciturna e – dopo la morte del padre, vestita di nero. Mi chiedevo, leggendo quella incredibile storia, come avesse fatto Alajmo a descrivere così perfettamente una realtà sconosciuta a molti proprio per l’ambientazione arroccata di luoghi non contemplati nemmeno dalle carte geografiche. Una storia potenzialmente possibile: un gruppetto di malfattori decide di rapire un bambino per chiederne il riscatto e di nasconderlo a casa di Cosimo (visto e considerato che tutto il paese gli stava a debita distanza) ma poi non si fanno più vivi e a Cosimo rimane un’incombenza più grande di lui: è a questo punto che entra in scena la madre di Cosimo, preoccupata nel non vedere il figlio da ormai qualche giorno; l’uomo infatti si è emancipato da lei per modo dire: da qualche tempo ha sì preso casa da solo, ma dipende ancora dalla mamma in tutto e per tutto. A cominciare dal cibo, che passa a ritirare ogni giorno in opportuni recipienti di plastica.
“E’ stato uno stupido a non coinvolgerla fin dal primo momento. Lei avrebbe risolto tutti i problemi o almeno lo avrebbe consigliato. Così è stato fin da quando lui era piccolo e non c’è motivo che vada diversamente, specie ora che si trova nei guai”. E difatti anche stavolta la donna prende in mano con vigore la situazione. Dà aria alla casa, dove c’era un odore “di traspirazione, piedi non lavati, urina ed escrementi”. Spazza per terra, mette a regime la cucina con dei pranzetti succulenti ma non c’è verso: l’ostaggio (il bambino) non tocca cibo e rimane fermo giornate intere nella medesima posizione. Più che tragica, la situazione è grottesca. E’ allora che matura l’idea dell’omicidio. L’uomo l’elucubra vagamente, quasi inconsapevolmente. Sua madre invece riprende il discorso in modo sorprendente e siccome lui è poco più che un bamboccio, sarà lei – ancora una volta – ad interpretare e mettere in atto il suo desiderio. “Vuoi che ci penso io?”, gli chiede. Poi lo fa uscire di casa e compie il delitto. La Grande Madre ha messo in atto la sua simbiosi mortale: la mamma verrà incontro al desiderio del figlio. Perché è lei, la Grande Dea, a rappresentare “il destino per il figlio, piccolo e bisognoso”. Ed è sempre lei “a dispensare ogni forma di vita e di morte“.
In definitiva non si tratta che di una riduzione del mito della madre mediterranea che da Brancati a Sciascia ci racconta delle opprimenti, avvolgenti madri siciliane disposte alla protezione quanto alla fagocitazione dei figli, anche se Alajmo lo fa in modo originale, con un linguaggio che sembra oralità trascritta. Alla luce del suo nuovo libro come se avesse girato a lungo attorno al tema, senza toccarlo mai da troppo vicino.
Abbandonare quel piano, quel cuore di madre (che pure mi è tornata in mente come un dipinto) e approdare a una madre completamente diversa e cittadina borghese (sua madre) come quella di cui Roberto ci racconta ne L’estate del ’78, non è stato facile, per me, anzi, in un certo senso, sconvolgente.
Parlare della propria vita intima, d’altronde, serve ad effettuare un viaggio a ritroso che tenta di mettere a posto le tessere di un puzzle rimasto a lungo volutamente scomposto, sia nella vita di chi scrive che in quella di chi legge, soprattutto in quella di chi legge: vengono fuori allo scoperto dei piani che il lettore attraversa come un singolare cosmonauta, senza fermarsi a nessuno di essi, ma con la necessità di riconciliarli. E’ uno stesso infinito viaggio nell’altra direzione, verso chi scrive, e, come ci ricorda Barthes, “dalla parola scritta potrei risalire alla mano, alla nervatura, al sangue, alla pulsione, alla cultura del corpo, al suo godimento”, che accomuna e avvicina. E’ un atto panico, e con quest’ansia ho letto velocemente e tutto d’un fiato questa toccante quanto inaspettata confessione.
Nel luglio del 1978 Roberto studia per gli orali dell’esame di maturità. Trascorre i giorni a Mondello, dove la sua famiglia ha una casa per trascorrere le vacanze, con lui ci sono gli amici con cui sta studiando. Le giornate sono un’agonia di ripassi, di pagine da sottolineare, fino alla volta che proprio basta! e allora qualcuno lancia l’idea di una fuga in gelateria. Il gruppo esce, poi si sfalda, Roberto resta distante, gli amici ancora sono fuori dall’inquadratura. Dentro ci sono lui e una donna che lo sta aspettando seduta su alcuni gradini; quella donna è sua madre. Roberto si avvicina, «Mamma che ci fai qui?», «Avevo voglia di vederti», dice lei. È l’ultimo saluto, è l’inizio dell’addio. Tre mesi dopo la madre si ucciderà. Niente fa prevedere il gesto, nessuno conosceva questo dolore di Roberto.
Quarantanni dopo quel ragazzo, ora uomo, padre, scrittore, sente l’urgenza di una investigazione, di entrare nei suoi luoghi oscuri, come lui stesso spiega, e di fare più luce. «Per tutti quelli che scrivono – e non solo per quelli che scrivono, sempre – c’è una storia che aspetta di essere raccontata. “La” storia. Quella attorno a cui ciascuno gira attorno anche per anni fingendo di fare altro per tenere esercitato il mestiere di scrivere. Una storia come quella raccontata da James Ellroy ne I miei luoghi oscuri, la ferita emotiva attorno alla quale lui stesso aveva circumnavigato per gran parte della sua carriera di scrittore, raccontando altre storie spesso simili e collaterali», scrive Alajmo sul suo blog.
Così torna alla sua storia di figlio – per spiegarsi e forse darsi pace – e lo fa grazie all’immagine di padre che gli restituisce il figlio Arturo. Roberto padre, cioè, può compiere attraverso l’ancoraggio sicuro della genitorialità quello che non aveva potuto Roberto figlio. Alle radici di un lutto traumatico Roberto può tornarci grazie ad Arturo. E allora se Roberto (figlio) ripensa a quell’incontro riesce solo a posteriori a leggervi quella potenza non compresa:
“Bisognerebbe provare a stilare una specie di Repertorio delle Gioie Irrecuperabili. Quel genere di piaceri che non siamo in grado di cogliere sul momento, e di cui ci rendiamo conto solo qualche tempo dopo, quando ormai sono impossibili da conseguire o riprodurre (…). C’è stata pure un’ultima volta in cui ho preso in braccio mio figlio. Magari per portarlo dal divano, dove si era addormentato, fino al suo letto (…). Mi pareva che fosse un compito eterno e invece no, era l’ultima volta.”
L’estate del ’78 non è semplicemente il risultato di un processo catartico ma una esplorazione più articolata in cui oltre all’indagine più evidente (che cosa è successo a mia madre? Chi era veramente? Dov’era l’origine della sua malattia?), ce n’è una meno visibile ma altrettanto dirompente: di quale fibra emotiva è fatto il legame che aggancia gli individui nella successione delle generazioni: se il DNA spiega la biologia, qual è la materia che spiega il legame che sopravvive a qualunque incomprensione, a qualunque tradimento? Come è possibile che due esseri così intimamente legati siano destinati, per esistere, a divergere definitivamente?
“Per il resto è come se fossimo rimasti su due lastre di ghiaccio della calotta artica separate da un innalzamento della temperatura, trascinate dalla corrente in direzioni diverse. Non si capisce come la corrente possa divergere tanto, in uno spazio così ristretto. Ma funziona così: dice che se metti in mare un paio di scarpe cominciano a divergere da subito, in preda alla stessa corrente ma sulla base delle minime differenze di conformazione, forse anche solo per il fatto di essere destra e sinistra. Nel giro di un mese quelle due scarpe, messe in mare una accanto all’altra di ritroveranno ognuna a un capo diverso del mondo. Così funziona pure fra padri e figli, tanto simili, prima uniti e poi dispersi.”
Riesco ad immaginare perfettamente quella Palermo degli anni Settanta e una donna che compiva una scelta così importante – separarsi dal marito – non era proprio usuale, tanto meno accettata. “In quegli anni è raro e difficile essere figlio di genitori separati. Nella mia classe ci sono solo io, e per quanto possa fare il disinvolto mi sento addosso una specie di compatimento generale molto fastidioso… Allora, per niente: i genitori che si separavano erano uno scandalo senza precedenti, che ti portavi addosso senza scampo dalla pubblica compassione. C’era persino qualche iper-moralista che aggiungeva alla compassione anche il peso della condanna, come se il divorzio fosse una colpa tanto grave da essere trasmessa dai genitori ai figli. Una tara genetica, praticamente.”
È sorprendente l’assenza di tormento nelle pagine che scorrono via veloci; non possiamo sapere quante volte Roberto sia sprofondato in quei luoghi oscuri ma sappiamo che ogni lacerazione appare ricomposta, come una tristezza senza struggimento, e un’infinitamente dolce tenerezza rabbrividisce lungo le pagine.
Ancora una volta Roberto Alajmo compie un’operazione letteraria di rara bellezza. “L’estate del ‘78” è Mondello e quel bar, la Sirenetta sulla cui soglia ci sono la frenesia dei ricordi, luglio che insegue novembre e novembre che torna sui suoi passi fino all’idea della morte evitata per la serenità di continuare a essere padre. L’ironia soccorre Roberto nei momenti più “forti”: dal primo romanzo Cuore di madre a Carne mia passando per il grottesco E’ stato il figlio, da Palermo è una cipolla a L’arte di annacarsi, Alajmo non rinuncia a minimizzare: “Magari… sputare il rospo sarà servito solo a mettere ogni cosa nero su bianco”.
Questa volta Roberto mi ha invitata in casa sua a guardare assieme le foto di una famiglia come le altre, a Palermo, in quegli anni, che ricordo, che riconosco. Mi racconta la parte più inconfessabile di sé e della sua famiglia, mi aiuta a riconoscermi: la storia di un addio di cui non aveva avuto sentore, la ricerca di un senso per il commiato improvviso di una madre dal marito, dai figli, dalla vita stessa. Il ritratto di una donna che voleva afferrare il mondo, e il mondo le scappava dalle dita. Un dramma di disagio domestico come se ne consumavano tanti, in quegli anni, nel chiuso segreto degli appartamenti della borghesia palermitana.
La sua sincerità e la sua umiltà mi hanno commosso fino alla compenetrazione più profonda, la sua scrittura è attraversata da una suspense che a tratti mi ha tolto il respiro, mi ha emozionata e ha riconfermato la mia stima nell’uomo e nello scrittore, oltre a donarmi ancora una volta il piacere di leggere quel suo umorismo così intelligente, così elegante.