Scrive Giovanni Impastato nel suo libro Oltre i cento passi: «Non ci sono davvero cento passi per andare dalla casa di Peppino a quella del boss: si tratta solo di attraversare la strada. Eppure quella distanza, anche se minima, segna un abisso tra due mentalità opposte». «Dopo la sua morte la voce di Peppino non ha mai smesso di parlare, di lottare per la dignità delle persone, di illuminare la strada. Una strada percorsa oggi da migliaia di persone».
Giovanni Impastato è il fratello minore di Peppino, il giornalista di Cinisi ucciso dalla mafia nel 1978; è colui che ha raccolto l’eredità e portato avanti la lotta che il fratello aveva cominciato. Tra i fondatori di “Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato”, la sua voce racconta il conflitto di chi ha vissuto la mafia e l’antimafia all’interno delle mura domestiche con gli occhi di un uomo che ha visto morire lo zio, il padre e il fratello, che ha assistito in primissima persona all’orrore della mafia, che prima ha negato i valori, anche familiari, e poi ha combattuto e combatte: con questo suo libro, pubblicato da Piemme, ripercorre la strada dalla morte di Peppino fino alla situazione odierna delle mafie – e delle antimafie – in Italia. Un racconto–testimonianza di quarant’anni vissuti in prima linea nella lotta alla criminalità organizzata.
La parola d’ordine della lotta di Peppino era Cultura: nel 1976 costituiva il gruppo Musica e Cultura, e nello stesso anno fondava Radio Aut dove, insieme ad un gruppo di amici, denunciava pubblicamente i soprusi mafiosi nella sua città, Cinisi, con tanto di nomi e cognomi. A Giovanni, questo faceva paura, non a torto: il 9 maggio del 1978 Peppino Impastato verrà ucciso per ordine di Gaetano Badalamenti, affiliato a Cosa Nostra. La matrice mafiosa del delitto verrà riconosciuta solo nel 1984 e soltanto dopo innumerevoli tentativi di insabbiamento, nel 2002 verranno condannati sia il mandante, sia l’esecutore del delitto.
Giovanni ci racconta la storia del fratello con parole molto semplici, a tratti commosse: quando era bambino la sua famiglia viveva felicemente perché era protetta dalla mafia, lo zio e altri parenti erano mafiosi, e il cognato del padre era Cesare Manzella, capomafia (ucciso nel 1963). Con il fratello, di cinque anni più grande di lui, andava a catturare le lucertole e le rane, e ricorda con molto affetto le lucciole, che toglievano la paura della notte. Quelle lucciole, di punto in bianco, sono scomparse. Dieci anni dopo, nel 1975, Giovanni leggerà il celeberrimo articolo di Pasolini in cui la storia politica italiana è divisa in tre grandi gruppi: prima, durante e dopo la scomparsa delle lucciole. Ed è in quest’ultima fase che si è creato un vuoto di potere che la mafia piano piano ha occupato.
Nel 1963 viene, appunto, ucciso Manzella. Peppino e Giovanni, insieme ad altri ragazzini, si recano sul luogo dell’attentato e trovano una deflagrazione completa. Peppino, traumatizzato da quello spettacolo, dice: “E questa è la mafia? Se questa è la mafia allora io la combatterò per il resto della mia vita.” E così ha fatto. Il primo passo è stato rompere col padre, ovvero ripudiare il suo codice comportamentale. Ai funerali del padre, con coerenza Peppino non stringe la mano ai mafiosi venuti a portargli le condoglianze; cosa che invece fa Giovanni, che ammette di non aver avuto il coraggio di prendere una posizione così radicale.
Cinisi è un paese siciliano come tanti: il mare, il lungo viale alberato che porta al Municipio, la massa rocciosa e priva di verde della montagna a sigillare il cielo. Schiacciata fra mare e montagna, si trova a pochi passi dall’aeroporto, luogo strategico per il traffico di droga. C’è qualcosa in quel mondo apparentemente normale, che non convince il giovanissimo Peppino: il disagio della madre, le sue mezze frasi, la fine tragica di persone care come lo zio Cesare – fatto saltare in aria su un’automobile – e le risposte mai ricevute. È il ’68, fervono le proteste; lontano, al Nord, esplodono le rivolte studentesche e operaie mentre a Cinisi il ’68 ha il volto dei contadini che si battono contro l’esproprio delle loro terre. Al loro fianco Peppino organizza dimostrazioni, denuncia le responsabilità della mafia, mette anche in discussione le linee, troppo “morbide e conservatrici” del partito comunista, conosce le prime sconfitte, ma, al tempo stesso, l’orgoglio di una vocazione. Mette in discussione il nuovo “padre” putativo, Stefano Venuti e le linee del suo partito, accusato di essere troppo burocratico e fonda un giornale, “Idea Socialista” che, con provocatoria irriverenza titola a tutta pagina: “La mafia è una montagna di merda”. La madre di Peppino, terrorizzata dalle possibili ripercussioni sulla famiglia, cerca di comprare tutte le copie del giornale, ma ciò non serve a evitare il feroce scontro fra il ragazzo e il padre e a segnare l’inizio della loro totale e profonda separazione. E a nulla serve l’intervento di Giovanni che cerca di riconciliarlo con la famiglia; piuttosto Peppino impone al fratello di camminare per strada per cento passi: tanta è la distanza che intercorre fra la loro casa e quella di Tano Badalamenti, il boss che regna incontrastato su Cinisi. Peppino quei cento passi non li vuole più fare, non vuole cioè più piegarsi al volere dei potenti del luogo, non vuole più subire, accettare, far finta di niente.
Da quel momento in poi comincia la lunga e quotidiana sfida al silenzio, con impegno e tenacia riesce ad aprire “Radio Out”, una piccola emittente che ha la forza di scuotere tutta la Sicilia. Dai suoi microfoni tutti i ragazzi del movimento si scatenano e irridono la mafia usando un geniale registro ironico. Ovviamente tutto ciò non piace affatto ai boss locali che incominciano a essere seriamente infastiditi da tali provocazioni. Badalamenti dunque ammonisce Luigi Impastato che, vistosi alle strette, cerca di convincere il figlio a farsi da parte, senza però alcun risultato. Spaventato dall’evolversi dei fatti, Luigi Impastato si reca in America per chiedere aiuto al cugino Antony il quale gli propone di far emigrare Peppino negli States. Rientrato a Cinisi, il padre tenta ancora una volta di convincere il figlio a lasciare la Sicilia, ma come effetto ottiene solo un ulteriore inasprimento delle proteste contro la mafia. Tornando a casa la sera, Luigi Impastato viene investito da un’auto e muore.
Arriva il ’77, Peppino pressato da frequenti minacce e preoccupato dalle incomprensioni anche con gli amici riesce comunque a resistere, cercando forme di impegno sempre più incisive e, alla fine, decide di candidarsi alle elezioni comunali, nelle file di Democrazia Proletaria, sperando di riuscire così a portare la sua battaglia nel cuore stesso del Palazzo.
Due giorni prima delle elezioni, mentre si sta recando a casa della madre, Peppino viene seguito da una vettura con a bordo ignoti sicari. Quando l’auto del ragazzo, nel buio della sera, si ferma davanti al passaggio a livello chiuso, gli uomini possono agire indisturbati: lo costringono a scendere, lo colpiscono alla nuca con dei grossi massi e, dopo averlo ucciso a sassate, lo fanno saltare in aria sui binari della ferrovia con sei chili di tritolo. Per una straordinaria coincidenza (?) Peppino Impastato viene ucciso lo stesso giorno in cui viene ritrovato a Roma il corpo di Aldo Moro, giustiziato dalle Brigate Rosse.
La polizia in prima battuta dichiara che si è trattato di un “incidente sul lavoro” e successivamente chiude il caso rubricandolo come “suicidio” e a nulla valgono le proteste degli amici. Quando la madre, Felicia Bartolotta, apprende la notizia rimane sconvolta, ma al tempo stesso è come se la morte di Peppino riuscisse a darle – per la prima volta – quella forza oppositiva di parole e gesti che non aveva mai avuto prima.
Il resto è storia che conosciamo tutti.
“La battaglia di Peppino non è mai finita”, sostiene Giovanni, “ma certo non può portarsi avanti strumentalizzando il suo nome per racimolare voti alle elezioni regionali”, afferma, criticando la lista di Claudio Fava alle regionali scorse. “Piuttosto, serve una linea guida da seguire, un progetto non solo culturale ma anche politico unitario, evitando a tutti i costi di creare un mito della mafia: “normalmente si considera la mafia come un Anti-Stato: questo è un errore. Il brigantaggio, per esempio, fu un Anti-Stato; le Brigate Rosse furono un Anti-Stato e sono state entrambe sconfitte. La mafia, invece, è dentro lo Stato. Giovanni vuole, in poche parole, metterci in guardia da un’errata concezione di legalità: “la legalità”, scrive, “è il rispetto dell’uomo in quanto tale. Se al centro di una legge, o di uno Stato, non c’è l’uomo, quella legge e quello Stato vanno cambiati. Quindi la parola d’ordine diventa disobbedienza civile, una rivendicazione dei nostri diritti nel rispetto dei nostri doveri, e conclude citando don Milani: “L’obbedienza non è più una virtù”.
Quello di Giovanni Impastato non è un libro sulla mafia piuttosto un libro sull’energia, sulla voglia di costruire, sull’immaginazione e la felicità di un gruppo di ragazzi che hanno osato guardare il cielo e sfidare il mondo nell’illusione di cambiarlo. Un libro sul conflitto familiare, sull’amore e la disillusione, sulla vergogna di appartenere allo stesso sangue. È un libro su ciò che di buono i ragazzi del ’68 sono riusciti a fare, sulle loro utopie, sul loro coraggio. “Se oggi la Sicilia è cambiata e nessuno può fingere che la mafia non esista (ma questo non riguarda solo i siciliani) molto si deve all’esempio di persone come Peppino, alla loro fantasia, al loro dolore, alla loro allegra disobbedienza” disse Marco Tullio Giordana, regista del film I cento passi che ha avuto il grande merito di rendere nota la storia di Peppino: un film dunque sulla memoria, un vaccino contro l’oblio di massa: “c’è sempre più bisogno di guardare al passato, c’è sempre più bisogno di pensare e progettare un futuro capace di affondare le proprie radici nella memoria individuale e collettiva per evitare che gli errori e gli orrori della storia si possano ripetere. Senza retorica, senza cadere mai nel patetico o nel banale, piuttosto cercando di stimolare nello spettatore riflessioni sul significato dell’obbedienza, dell’onore, del rispetto, della ribellione e dell’esclusione, dell’utopia”. Indimenticabile e toccante la sequenza in cui la madre va a trovare Peppino che, dopo essere stato cacciato di casa dal padre, si è sistemato in un garage. Inquadrato in primissimo piano Peppino inizia a leggere una poesia di Pier Paolo Pasolini e poi invita la madre a fare altrettanto. Sul gioco del controcampo visivo lo schermo si riempie dei due visi e della liricità pasoliniana: “È difficile dire con parole di figlio ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio. Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore, ciò che è stato sempre, prima di ogni altro amore. Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere: è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia. Sei insostituibile. Per questo è dannata alla solitudine la vita che mi hai dato” che invade tutta la scena, sedimentandosi nella memoria dello spettatore.
«Ogni volto è un paesaggio», spiegava l’artista Venuti a Peppino Impastato: «Ci sono volti che sembrano un giardino, altri che sono come un bosco ed altri ancora che assomigliano a lande desolate in cui non cresce assolutamente nulla». Ed è proprio attraverso l’espressione disegnata sui volti di Peppino e dell’amico (nella scena in cui i due dall’alto della collina che domina l’aeroporto palermitano di Punta Raisi guardano oltre l’orizzonte, verso l’infinito), attraverso il loro sguardo che si spinge oltre il paesaggio deturpato, che il film sembra trarre il proprio apologo morale: nella vita è importante sapersi sempre spingere oltre senza cedere mai alla tentazione di accettare le cose per il fatto stesso che esistono, senza mai cadere nella trappola di lasciarsi trascinare e di compiere i “cento passi” che ci separano dall’abitudine e dalla rassegnazione.
L’aspetto che maggiormente convince dell’impegno civile, umile e fermo, di Giovanni Impastato, riflesso interamente nel suo libro, rimane la profonda distanza dai tanti “professionisti dell’antimafia”, spesso parassitaria rispetto a un fenomeno che si presta a numerose strumentalizzazioni. “Esistono due modi sbagliati per fare antimafia”, secondo Giovanni: il primo è politico, ed è quello della retorica e della criminalizzazione, il secondo è giudiziario laddove esistono gruppi che, come sacerdoti nel tempio, dispensano condanne e assoluzioni infischiandosene della necessità di colpire l’organizzazione mafiosa e usando la lotta alla mafia per ottenere vantaggi politici, per colpire gli avversari per scomunicare, per guadagnare potere. Basta seguire l’attività della Commissione Antimafia che non ha niente a che fare con una commissione d’inchiesta parlamentare e appare sempre di più un gruppo politico d’assalto e spregiudicato.
L’antimafia giudiziaria è quella di chi usa la “mafiosità” come reato politico per dare peso e spettacolarità alle indagini, oppure, semplicemente, per renderle più facili. Il caso più clamoroso, sotto agli occhi di tutti, è quello dell’eterno processo di Palermo alla cosiddetta trattativa stato-mafia, processo durato anni e arrivato fino a oggi, che ha preso il posto delle grandi, e serie, inchieste antimafia: se pensiamo alle inchieste di Falcone e Borsellino, costruite con un lavoro duro, che portarono alla condanna di tutto il Gotha di Cosa Nostra, e le confrontiamo con la messa in scena dello Stato-Mafia, capiamo bene qual’è la differenza tra un’inchiesta giudiziaria e la giustizia spettacolo. E qual’è la differenza tra la lotta alla mafia e l’antimafia professionale. Poi c’è ancora un altro modo, scorretto, di usare l’antimafia, ed è l’abitudine di usare l’aggravante mafiosa anche in processi alla delinquenza comune, per la semplice ragione che così si possono applicare norme e leggi speciali che altrimenti sarebbero inutilizzabili. Se non ci convinciamo della necessità di farla finita con l’antimafia professionale non riusciremo mai più a riprendere in mano la lotta alla mafia, ovvero alle cosche reali, sembra suggerire Giovanni Impastato: quelle che esistono, che operano, che si organizzano, che inquinano l’economia e la vita civile.