“Io sono nessuno”, la notte nera del clochard a Palermo

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mauro donato


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Ancora un clochard che muore assiderato in una notte natalizia, guardando dall’angolo della strada, sul marciapiedi gelido dove si era disteso esausto, le lucine sfavillanti degli alberi addobbati. Stavolta e’ accaduto a Palermo, in una traversa di via Monte Pellegrino, qualche notte fa, a pochi metri da un noto Hotel a cinque stelle.

Una dipartita anticipata, la sua, magari gli sarebbe piaciuto fare l’ultimo viaggio la notte in cui nasce un bimbo che perdona, annuncia speranza e salva dalla cattiveria gli uomini di buona volontà. Chissà, anche lui sarà stato un uomo di buona volontà ma non ce l’ha fatta. Di lui si conosce solo la nazionalità, era un polacco.

Morire tanto lontano da casa in una gelida notte di dicembre è un evento nero come la notte che ha vissuto quest’uomo solo, ed è estremamente insopportabile. Com’è possibile che nessun passante si sia accorto di quest’uomo stremato e della sua allucinata agonia? Voci popolari dicono addirittura che qualcuno che avrebbe potuto (avrebbe dovuto) si sia rifiutato di offrirgli una coperta, qualcosa con cui coprirsi per superare la notte. Una guerra tra poveri squallida fino all’inverosimile? Il persistente pregiudizio nei confronti dello “straniero”?

Eppure la città’ di Palermo ha i suoi angeli della notte, e tutti conosciamo la storia e la buona volontà di Biagio Conte, il “Missionario laico” che si occupa fin dal 1991 di accoglienza presso la Missione di Speranza e Carità da egli stesso fondata: tutti possono andare con la certezza di essere ospitati: barboni, vagabondi, giovani sbandati, alcolisti, ex detenuti, separati, prostitute, profughi, immigrati e tutti, indistintamente, dentro la Missione diventano fratelli.

Ricordo personalmente, durante un periodo di volontariato suburbano, che la Missione inizio’ a cucinare, per i nuovi poveri, in un piccolo localino adiacente alla Stazione Centrale concesso dalle Ferrovie con un piccolo bruciatore a gas: oggi in ognuna delle tre comunità’ sono presenti una cucina e una mensa dove vengono distribuiti tre pasti al giorno per tutti (complessivamente si stimano circa duemilaquattrocento pasti al giorno) oltre a servizi docce, vestiti, assistenza medica.

Il polacco trovato morto assiderato probabilmente ne sconosceva l’esistenza e nessuno si e ‘preoccupato di offrirgli un’opportunità, un atteggiamento imperdonabile nella notte della redenzione umana più nota al mondo, quella della Natività.

Un vagabondo che muore per strada in una notte gelida nell’indifferenza generale dell’attuale umanità urbana non è più il girovago bohémiens, un po’ filosofo on the road, libero, senza luogo e senza vincoli, secondo un’immaginario collettivo enfatizzato del passato e ormai sbiadito. Nelle nostre città il clochard è diventato un marginale, un emarginato, un escluso, “l’altro” che genera paura, persino oggetto di mille pregiudizi. Di lui si occupano distrattamente le cronache giornalistiche, le ricerche e le inchieste sociologiche. Il fenomeno, radicato ormai nel nostro vecchio continente ha mutato la sua iconografia; negli anni Sessanta negli Stati Uniti hanno iniziato a chiamarlo “without home” o “homeless”, senza tetto, uno che dorme per terra nell’angolo della metropolitana o della stazione ferroviaria, che rovista nei bidoni della spazzatura per cercare cibo, vive di accattonaggio accanto ad altri simili a lui. Non è l’esistenza romantica che ci racconta la letteratura: la sua giornata ha l’unico fine di trovare un riparo per la notte e capita spesso che tra loro non siano solidali anzi che i loro rapporti risultino tesi, dominati dall’aggressività. Potrebbero essersi trasformati in clochard per un evento traumatico che li ha precipitati verso un disagio psicologico e sociale da cui si innesca un processo degenerativo a catena in cui l’emarginazione diventa auto emarginazione, ovvero il convincimento che non ci sia rimedio, che quella sia l’unica possibilità. I casi che confluiscono verso questo status sono molti e niente potrebbe escludere che possa accadere a ognuno di noi, viste le precarie condizioni sociali in cui viviamo (tranne i soliti pochi privilegiati) cosi come e’ accaduto a Wainer Molteni, autore oggi del libro “Io sono nessuno“, edito da Baldini Castoldi Dalai, che vale la pena di ricordare.

“Se resti lucido una soluzione la trovi. E’ il consiglio che mi sento di dare oggi a chi è nella condizione che ho vissuto io otto anni fa, non mollare” ha detto a un giornalista durante un’intervista. La sua storia di clochard laureato a pieni voti alla Statale di Milano – con alle spalle un dottorato in Criminologia alla Normale di Pisa, un master di tre anni negli Stati Uniti nel quartier generale dell’Fbi, e un lavoro da caporeparto in una catena di supermercati italiani, assorbita poi da una nuova proprietà che ha tagliato il personale – dà voce a un esercito di invisibili che lottano per sopravvivere, salvo poter morire una notte di gelo su una panchina, o bruciato vivo dal razzista di turno. Il suo libro non a caso e’ stato presentato nel dormitorio di Viale Ortles a Milano, la sua città, davanti a tanti clochard, spesso compagni di sacco a pelo di Wainer, ma ancora “imprigionati” in quella rete di assistenza che salva migliaia di persone dal freddo e dalla fame, ma che ancora non riesce a fornir loro gli strumenti per ricominciare da soli. Sì, perché la storia di Wainer, al contrario di molte altre, è una storia a lieto fine. Dopo tante notti al freddo o lunghe file per mangiare e fare la doccia, dopo l’umiliazione di essere respinti perché troppo qualificati o perché senza fissa dimora, Wainer ha trovato la sua strada. Prima di tutto per non morire: “Mi ha salvato la voce del servizio Sos della stazione Centrale di Milano. Una notte in cui ero disperato, un volontario ha risposto alla mia chiamata e il mondo mi ha sorriso di nuovo; ho capito che non ero più solo e che sarei sopravvissuto a quel momento”. La vera riscossa di Wainer, però, è stata l’indipendenza. “Non si è liberi se si dipende dalla generosità degli altri, ma solo se ci si costruisce il proprio futuro”. E questa è la sua vera storia: nel 2005 Wainer ha fondato insieme ai compagni di strada, il sindacato spontaneo “clochard alla riscossa“, che gestisce un bar e una mensa a Milano e un agriturismo a Serravalle Pistoiese. Ed è al sindacato che andranno tutti i proventi della vendita del libro. Un modo, ma soprattutto una rete, per far lavorare tanti senzatetto e offrire loro un futuro. “E’ questo che dovrebbe garantire il centro di viale Ortles – pare aver affermato con rabbia davanti all’inusuale pubblico di quella conferenza stampa –: una strada per ricominciare!”

Un messaggio di Speranza e Solidarietà umana che non dovrebbe mancare tra i doni di Natale sotto l’albero luminescente che rallegra le nostre tiepide case. C’e’, tra queste persone, chi si indigna per la parola clochard, e con grande orgoglio rivendica la propria, dignitosa, condizione di bisogno. Tante storie diverse, che con quella raccontata da Molteni hanno in comune la strada e la disperazione, perché a Milano come a Palermo forse non si muore di fame, ma si muore ancora di freddo.

Vengono in mente i versi di un poeta un po’ appartato, Giovanni Abbo: «Travestiti da pastori / o scorta volontaria dei re Magi / andiamo a Betlemme cianciando d’amore e di pace, / comunque nascondendo / sotto il mantello di ogni evenienza / un kalashnikov ben oliato». Strappando la tradizionale coreografia di luci, di regali, di buoni sentimenti – cose tutte degne ma secondarie – in questi giorni di Natale, per qualcuno fatali, non possiamo dimenticare il grande dolore del mondo: dopo tutto sulla nascita di Cristo si affaccia subito l’incubo di Erode e il Bambino, il quale, non dimentichiamolo, per non finire sotto la spada che elimina i neonati di Betlemme (la “strage degli innocenti”), si allinea coi suoi genitori nella fila interminabile dei profughi.

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