“Borgo Vecchio”, a Palermo Giosuè Calaciura vincitore del Premio Volponi

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Giosuè Calaciura ha vinto il Premio Volponi con “Borgo Vecchio”, il romanzo pubblicato la scorsa primavera da Sellerio, giunto in finale insieme a “Works” di Vitaliano Trevisan (Einaudi) e “É giusto obbedire alla notte” di Matteo Nucci (Ponte alle Grazie). Lo scrittore palermitano, premiato alla cerimonia che si è svolta il 3 dicembre a Porto San Giorgio (Fermo), ha dedicato il riconoscimento ad Alessandro Leogrande, il giornalista scrittore morto lo scorso 26 novembre a soli 40 anni.

Borgo Vecchio è uno dei quartieri palermitani più noti e antichi che consiste  in una manciata di viuzze nel cuore della città, alle spalle del Teatro Politeama, zona Liberty e bellissima, un quartiere con le case povere e scrostate a cui l’infinita gamma cromatica di sentimenti forti e violenti dona al quartiere colori e passioni. A Borgo Vecchio tutti si conoscono, si sfiorano, si scontrano, si amano, si tradiscono, si vendicano. E nascono, crescono e i fortunati alle volte vanno via: è un condensato di vita, di vizi privati senza pubbliche virtù.

Nelle giornate come queste dicembrine in cui il titolare del distributore di benzina “Esso” di piazza Ucciardone, ha raccontato con la voce rotta che paga da 15 anni il “pizzo” ai mafiosi estortori:  “Prima 200 euro, a Pasqua e a Natale. Poi, 500. Negli ultimi tempi volevano ancora di più”, e quando  i soci della discoteca pub Rivendell di via Gerbasi si sono decisi a presentarsi spontaneamente alla caserma dei carabinieri per confessare il proprio stato: “Noi siamo persone perbene e corrette, che vogliono riacquistare la propria serenità”, raccontando tutto (tutto quello che già tutti sapevamo, fin dal ritrovamento del libro mastro trovato nei pantaloni di Giuseppe Tantillo, il commerciante che “cantava”) il Premio a Calaciura arriva come un dono e una speranza per il Borgo, e per la città di Palermo: un premio che sembra riferito ai 18 operatori economici che hanno “parlato”, eroi di una città dove è tornata pesante la morsa del pizzo. Ha detto il titolare del ristorante Cucina Papoff, uno dei più noti del centro e vicino al Borgo: “Nel 2010, mi telefonarono per invitarmi a cercare un amico. Mi rivolsi allora a un collega commerciante, che qualche giorno dopo mi portò il messaggio: devi pagare 1000 euro”. Vincere contro un’antica rassegnazione, quella che si lascia “baciare” dalla Mafia.

Al Borgo, ci racconta Calaciura,  vivono Mimmo e Cristofaro, amici fraterni, compagni di scuola e di fughe; Carmela la prostituta e Celeste, sua figlia; Totò il rapinatore che tiene la pistola nella calza perché – così si dice – è più difficile da usare. Qui si allevano cavalli per le corse e si truccano le bilance delle salumerie, mentre con rumore di catene “il Postale” sgancia gli ormeggi e naviga verso il Continente, confondendo suoni di partenza con i lamenti dolorosi causati dai pugni di un padre ubriaco. Da un lato  il mare ventoso e nostalgico, dall’altro effluvi odorosi di carne che cuoce e che entrano prepotenti nelle case di chi carne non mangia mai. Nei vicoli il profumo del pane sfornato due volte al giorno suscita un tale stupore tra la gente del Borgo che non è difficile incontrare chi si segna con la croce, alla stregua di una benedizione. E può capitare che le forze dell’ordine cingano in assalto il quartiere fino a presidiarne gli ingressi, come in un assedio medievale.

Malgrado il racconto di Calaciura raggiunga livelli di descrizione a dir poco surreali, a dominare e vincere nel suo racconto è stata la verità, quella verità dura, difficile e contraddittoria di una città che non può soffocare la sua realtà di quartiere laddove risiedono cuore e anima, dove la vita è miracolo quotidiano, fierezza e efferatezza, presente doloroso spesso privo di speranza nel futuro, in una lingua deliziosamente ricercata che sembra accarezzare la poesia della vita che a Borgo Vecchio è tanto caratterizzata. Calaciura descrive con sguardo carico di pietas quelle finestre piccole e dense e così tante da diventare parte integrante della storia: da quelle piccole e diroccate finestrelle opache si spandono per l’aria voci, luci, ombre, promesse e destini. I motivi su cui Calaciura lavora con estrema coerenza da anni sono noti, soprattutto il rapporto tra infanzia e ambiente, la difficoltà di crescere, l’innocenza delle creature più fragili («bambini e altri animali», come dice un suo titolo recente…) nel confronto con la miseria economica e morale degli adulti. Ma appunto sono motivi letterari eterni calati nella realtà o meglio nell’irrealtà siciliana, sempre in bilico tra il mondo antico e quello incompreso, o frainteso, della modernità: luoghi e tempi che non trovano sintesi né equilibrio, quella disarmonia su cui poggiano le maggiori lacune dell’antropologia italiana e in particolare e a maggior ragione, siciliana. Il Borgo Vecchio d’altronde è un quartiere di Palermo che potrebbe essere la contrada urbana di un qualunque meridione, non solo europeo, alle prese con la povertà e la micro e macro delinquenza diffusa. Si comprende così perché uno dei luoghi mitici del libro sia la macelleria, lo scannatoio le cui vittime sono vittime sacrificali. Come l’agnello che viene addobbato di lucine colorate alla vigilia di Natale e scannato per Pasqua al cospetto di un pubblico curioso e feroce, magari dopo che lo stesso animale aveva condiviso l’inverno in fraternità con lo scimunito Nicola, disperato per quella fine brutale e convinto che presto lo stesso accadrà a lui.

Via via che si procede nel viaggio letterario e senza dubbio musicale, all’interno di quel reticolo labirintico di vicoli e cortili, tra assassini potenziali e antichi odi che aspettano l’occasione giusta per trasformarsi in violenza, il racconto imbocca un sentiero come di favola, dove la collera di Dio contro l’ostinazione di Celeste, la bambina figlia della bellissima prostituta locale, Carmela, concentrata sui libri di scuola, scatena un delirio di pioggia: “Versò secchiate di acqua violenta, soffiò ruggiti di vento a gonfiare le tende del mercato che si liberarono da tutti i nodi, strapparono tutte le corde e si alzarono sul Quartiere a terrorizzare con il presagio della fine del mondo”.

Un breve e intenso romanzo felice e feroce che ha meritato senza dubbio il Premio Volponi.

 

Foto: Renato Guttuso (1911-1987), «Case di Palermo» (1976 circa, olio su tela, particolare).

 

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