La recente proclamazione dei Dottori di ricerca nella prestigiosa sede del Teatro Massimo, mi ha suggerito una riflessione sul ruolo della cultura, della ricerca e dell’innovazione nel nostro Paese. L’attualità del tema è avvertita, in misura particolare, nel Mezzogiorno d’Italia e in Sicilia dove la valenza dell’istruzione e della formazione superiore si carica di ulteriori significati, connessi al valore che esse assumono quale pedagogico strumento di lotta alla mafia e alla malavita organizzata. La crescita del capitale umano e la capacità competitiva delle giovani generazioni rappresentano un obiettivo strategico e fondamentale per un Paese che intenda raccogliere e sostenere la sfida del futuro in un mondo divenuto oltremodo selettivo ed esigente.
In una sua recente intervista, il Ministro Giannini ha affermato: “Se perdiamo la sensibilità per la scuola, prima, e per l’Università, poi, diventa difficile adottare misure concrete ed è ancora più complesso raggiungere lo scopo finale che consiste nel miglioramento della qualità e nel recupero della conoscenza”.
Eppure, a fronte di un così diffuso ed autorevole consenso sulla naturale opportunità di incentivare il sistema nazionale dell’università e della ricerca, quest’ultimo, dal 2009 ad oggi, ha dovuto registrare una contrazione di circa il 20% delle risorse finanziarie trasferite dallo Stato, alla quale si aggiunge una perdita di ricercatori e docenti pari al 15%. La percentuale di PIL nazionale destinato al sistema universitario, è, oggi, ben lontana da quella soglia del 3% prevista tra gli obiettivi di medio termine posti a carico dei Paesi dell’Unione con i quali i ricercatori italiani, nonostante le distorsive conclusioni dei ranking internazionali, competono con documentato successo solo che i loro risultati vengano rapportati alla cospicuità delle risorse umane ed economiche che gli altri Stati europei destinano al perseguimento della strategia di Lisbona, mirata allo sviluppo della società della conoscenza ed alla valorizzazione della terza missione dell’Università, basata su innovazione, trasferimento tecnologico e crescita di qualificate opportunità occupazionali, sganciate da perverse logiche pubbliche, troppo spesso assistenziali ed improduttive.
L’Università italiana ha accettato – e sta affrontando con serietà – il percorso della valutazione, per quanto quest’ultimo, talvolta ancorato a regole meccanicistiche e particolarmente esigenti sul piano burocratico, non sempre sia in condizione di riconoscere pienamente il merito e di premiare quanti, con profonda disponibilità al cambiamento, abbiano effettivamente migliorato la loro performance rispetto al passato.
Siamo di fronte al concreto rischio che un approccio privo della necessaria flessibilità ed il continuo depauperamento delle disponibilità alimentino, nella comunità accademica, una progressiva disaffezione ed un pericoloso allontanamento dai suoi valori fondanti: l’insegnamento, la ricerca, il contatto gratificante con gli studenti e con gli allievi; in una parola, la sollecita attenzione alla persona ed il vivido orgoglio dell’appartenenza.
Non intendo sottovalutare l’uso non sempre virtuoso che, nel tempo, è stato fatto dell’autonomia universitaria – determinando sprechi, eccessi e, non infrequentemente, ingloriosi episodi di nepotismo – ma sarebbe esiziale non comprendere come, in tempi profondamente mutati, il sistema, nella sua più larga parte, abbia avvertito l’esigenza di assumere nuove e più impegnative responsabilità.
E lo ha fatto chiamando a raccolta quanti, e sono tanti, mantengono forte consapevolezza della essenziale funzione strategica dell’Università e determinata volontà di futuro e di progetto.
Tra questi un ruolo cruciale rivestono i giovani ai quali l’Università, così come il Paese, è chiamato a rivolgere una sollecitudine particolare, onde prevenire ed evitare un tradimento generazionale che indurrebbe, più di quanto già non avvenga, lacerazione del tessuto sociale, caduta dell’identità culturale, crescente distacco dalle istituzioni repubblicane, inevitabile attrazione verso altre e lontane, ma più accoglienti e soddisfacenti, opportunità di vita e di lavoro.
Occorre riscoprire la bellezza e la soddisfazione che regalano a noi, non più verdi d’età, l’ascolto dei giovani, la condivisione dei loro progetti, la capacità di mostrarci autorevoli e non autoritari, indicando la strada delle regole, dei diritti e dei doveri, ma a condizione che noi, per primi, siamo capaci di inverare, nei comportamenti e nelle scelte, i migliori valori della convivenza civile, abbandonando la tentazione di dispensare solo buone parole, poi smentite dai fatti.
Nel rivolgermi ai neo-dottori di ricerca della nostra Università, vorrei che ad essi potesse essere ragionevolmente assicurata una pronta e pertinente occupazione professionale, capace di trasferire al mondo del lavoro e della produzione le competenze e le esperienze maturate nel percorso dottorale, convinto come sono che quest’ultimo non debba essere rivolto alla sola, peraltro oggi limitata, possibilità di assorbimento nel sistema accademico, quanto piuttosto destinato a moltiplicare le occasioni di incontro tra conoscenza, ricerca e lavoro, con conseguente innalzamento del livello competitivo dell’impresa e del rendimento qualitativo del sistema pubblico e privato.
I più recenti dati ISTAT sull’occupazione giovanile, in Italia, ci consegnano gli amari numeri di una sconfitta nazionale, tale da rimandare ai critici livelli registrati nel lontano 1977. A questo punto, appare almeno inattuale ricorrere ancora una volta all’abusato luogo comune secondo cui è inevitabile, e forse necessaria, un’«Italia a due velocità», utilizzato, nel tempo, per rimarcare – e forse anche per demonizzare – gli atavici ritardi del Sud a fronte di un Nord, certamente più evoluto ma oggi segnato, anch’esso, dall’inaspettata brutalità di una crisi che colpisce acutamente l’intero Paese.
Pur avvertendo soprattutto al Sud è ampiamente suonata l’ultima campana per traghettare il sistema pubblico verso la logica ineludibile dell’efficacia, dell’efficienza e dell’economicità, occorre interrogarsi su quanto l’Italia abbia effettivamente puntato, negli ultimi decenni, sulla costruzione di una classe dirigente aperta e multilingue, laboriosa e non burocratica, realmente qualificata e non solo unta dal viatico dell’appartenenza politica o familistica. Non basta, sic et simpliciter, invocare il ricambio generazionale della classe dirigente quale panacea per il cambiamento; è, piuttosto, necessario costruire, uniti, un nuovo progetto sociale che liberi energie ed opportunità, partendo dalla centralità del percorso educativo per arrivare alla piena integrazione della filiera formazione/innovazione/lavoro.
In tale contesto assumono particolare significato, da un lato, l’incentivazione del dialogo tra il mondo della ricerca e quello dell’impresa avanzata e, dall’altro, la capacità dei reggitori della cosa pubblica di dispiegare robuste politiche di sviluppo, realizzando adeguati e duraturi investimenti a sostegno della concreta valorizzazione del capitale umano e della costante crescita delle competenze.
In un articolo recentemente pubblicato sul Sole 24 Ore a firma dell’attuale Presidente della Conferenza italiana dei Rettori, in seno alla quale mi onoro di assolvere alla funzione di Vice-Presidente afferma il Rettore Paleari: “… non si chiede all’Italia ciò che, purtroppo, non può dare, almeno nel breve periodo. Si chiede, però, … di … fare di tutto per invertire almeno il trend. … C’è una proposta politica per tutto ciò? … C’è coerenza tra gli obiettivi “europei” e i mezzi “italiani”?”
Queste sono le risposte con le quali, insieme ai Rettori italiani, mi permetto di sollecitare quanti sono chiamati a governare la Sicilia, l’Italia e l’Europa. Lo chiediamo per contrastare il declino, per restituire tensione morale e civile a questo Paese, per fermare l’esodo della migliore gioventù, per regalare credibili speranze a questi giovani che oggi, insieme alle loro orgogliose famiglie, celebrano, dopo averci creduto, un passaggio importante per la costruzione del loro futuro professionale, con l’auspicio e la volenterosa ambizione di potere contribuire, da protagonisti del cambiamento, alla crescita e all’affermazione internazionale del loro Paese e della loro Regione. Non deludiamoli se vogliamo dare senso al nostro lavoro, corpo alle nostre responsabilità e significato al nostro passaggio generazionale.











questo assai parla e pure difficile