“Una storia sbagliata”, il film che debutta in questi giorni nelle sale cinematografiche italiane, ambientato in parte a Gela, ha un titolo che meglio di qualunque argomento o discorso, spiega la città: i sentimenti prevalenti, le ambiguità, le delusioni, la rabbia, il malessere. Spiega in qualche modo perfino il voto alle amministrative, la quasi-bocciatura del candidato Pd, il sindaco uscente Angelo Fasulo, accreditato dei maggiori favori alla vigilia, le carte in regola per aspirare alla permanenza del mandato per altri quattro anni.
Il verdetto delle urne è stato impietoso: Fasulo dovrà competere con uno sconosciuto professionista, l’ingegnere Domenico Messinese, candidato del Movimento 5 Stelle, che lo ha sopravanzato in suffragi. Appena 160 voti in più, beninteso, ma quanto basta per rimanere dietro lo sfidante e subire l’onta del secondo posto.
La mezza dèbacle ha fatto notizia anche sulla stampa nazionale. Gela è una pagella “aperta”, su cui vengono dati i voti al presidente della Regione, Rosario Crocetta. Perciò la mezza bocciatura è stata addebitata al governatore con una temeraria nonchalance.
Erano errate le previsioni? È stato sopravvalutato il candidato? Fasulo è stato vittima di un complotto, una trappola, un tradimento? Hanno bocciato il presidente della Regione, gelese purosangue, per interposta persona? O è l’Eni, che i gelesi hanno bocciato, attraverso il loro sindaco, che con il petrolchimico mantiene rapporti di buon vicinato?
Gli avversari politici propendono per la terza ipotesi, la più conveniente per loro: hanno bocciato Crocetta. La modesta messe di suffragi per Angelo Fasulo sarebbe la spia della considerazione, non proprio esaltante, che i gelesi hanno oggi del loro concittadino: insediatosi a Palazzo d’Orleans, non ha fatto la loro fortuna.
Il fatto che sia una tesi conveniente e plausibile, tuttavia, non significa che è quella giusta. Le urne di Gela, metafora del Sud, meritano una analisi meno superficiale.
Crediamo, infatti, che stavolta i gelesi si siano vendicati della storia sbagliata della loro città, delle aspettative deluse, che non sopportino più di subire, per sopravvivere, i ricatti dell’industria, e di essere costretti a convivere con l’ambiente guasto, le altalenanti fortune della fabbrica, che li obbliga a guardare in faccia alla realtà, avara di quelle speranze, sogni, ambizioni che accompagnarono l’industrializzazione della città.
Alle urne è entrata, dunque, la storia sbagliata di Gela, di quel Mezzogiorno sedotto e abbandonato che Gela rappresenta in modo esemplare. Depositando la scheda nell’urna molti gelesi hanno rivisto il film della storia sbagliata. Un flash lungo quasi mezzo secolo. Che li ha fatti tornare al tempo – vissuto o raccontato, non importa – in cui i maestri elementari lasciavano la cattedra per la fabbrica, indossando la tuta blu durante le passeggiate con gli amici per mostrare il benessere appena conquistato, o al tempo in cui i braccianti abbandonavano, felici come fanciulli, l’avaro lavoro nei campi per il posto all’Agip o all’Eni.
Meritano un primo piano in questo contesto le prime trivelle che perforano il sottosuolo nella piana di Gela e a mare. Erano amatissime e facevano sognare i gelesi, convinti di essere stati baciati dalla fortuna, quasi che un pezzo del Texas fosse sbarcato a casa loro. Addio agli stenti, addio alla terra avara, addio a quell’attesa del nulla, fatta di passeggiate serali, chiacchiere e fantasie.
In breve tempo il Petrolchimico si prese la testa ed il cuore della gente. Furono le luci notturne della fabbrica ad illuminare la collina su cui giaceva la città, ignara.
I gelesi si accorsero dopo molti anni che era sparito il boschetto di Bulala per far posto alla fabbrica, che il lago del Biviere, la stazione di posta degli uccelli migratori, era diventato una bacinella, che le spiagge, con le dune che carezzavano il mare, erano scomparse, e che gli alberi ai lati delle strade erano diventati sepolcri sbiancati.
Se lo sono chiesti in tanti come sarebbe stata la vita senza la fabbrica, senza darsi mai una risposta. I gelesi, prigionieri dei loro bisogni, hanno vissuto 45 anni accanto al mostro d’acciaio, borbottando magari, e l’hanno sopportato come un gigante buono, cui non si potesse negare indulgenza.
Il risveglio è stato brusco. Se la città ha combattuto per tenersi ciò che non avrebbe più voluto, l’Eni ha dovuto destreggiarsi fra l’obsolescenza dello stabilimento e l’impossibilità di andare via. Costi alti di produzione, costi altissimi per la fuga a causa di un inspiegabile abbandono. Si sono guardati in cagnesco città e fabbrica, accomunate dalla frustrazione, che suscita l’impotenza,
Uno psicodramma. C’è la città che protesta in piazza per la riconversione green della fabbrica e, di conseguenza, per il ritorno delle trivelle, e c’è l’altra Gela che vorrebbe cancellare la fabbrica e nel segreto delle urne boccia il petrolio e tutto ciò che gli assomiglia.
Aggiungete a tutto questo l’aspettativa che desta il primo presidente della Regione gelese sulla tolda di comando: i mille bisogni inevasi, le questue deluse, i clienti lasciati dietro la porta, la crisi che si prende l’anima oltre che il portafogli.
In un contesto siffatto, che posto mai può occupare il sindaco di una città, chiunque sia? Piedi a terra, dunque. Il primo turno è andato ai No Triv. Tornare a perforare garantisce la riconversione della fabbrica e la sua permanenza, è vero. Ma che cosa importa, quando non se ne può più del presente.
E il ballottaggio? Porta le stimmate del passato, ma dovrà scommettere sul futuro. Per la prima volta, forse, i gelesi decidono la loro storia, non hanno alibi: lasciare le cose come stanno e adoperarsi per migliorarle, oppure il cambio di rotta con le sue incognite.
Che cosa al posto delle trivelle e della fabbrica?











Pagherà Fasulo, le colpe dell’inconcludente e fallimentare Crocetta!