Indagati del governo Renzi devono dimettersi? Due i siciliani nel mirino

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“Se consentiamo di stabilire un nesso tra avviso di garanzia e dimissioni — dice Matteo Renzi — diamo per buono il principio per cui qualsiasi giudice può iniziare un’indagine e decidere sul potere esecutivo”. Ma l’idea opposta, e cioè che la politica possa annullare le ragioni della giustizia, non è garantismo. È impunità. Come se il partito avesse il potere medievale di rendere innocente un colpevole e viceversa. Insomma più che al Montesquieu illuminista di Renzi questa schiuma rimanda al dosaggio dei veleni, al potere come saga dei Borgia e ai fabbricatori di dossier.

Francesco Merlo, editorialista di Repubblica, non ha dubbi: il presidente del Consiglio ha torto marcio e, probabilmente, la sua ricetta serve solamente a salvare gli amici e a permettergli di spiegare i due pesi e due misure adoperate a sfavore di Maurizio Lupi, invitato a dimettersi, e a favore dei quattro sottosegretari indagati e rimasti al loro posto (due dei quali siciliani, Giuseppe Castiglione e Davide Faraone).

Gli indagati dovrebbero perciò farsi da parte. Ha ragione il giornalista, intransigente, o Matteo Renzi, indulgente? L’intransigenza gode di un pregiudizio favorevole, qualunque sondaggio la premia, le ragioni di Merlo – prendiamone atto – riceverebbero un plebiscito. Se gli indagati fossero “eccellenti” – personaggi politici importanti – la severità farebbe il pieno di consensi. Dimissioni immediate, senza remissione di peccati.

Chi riceve un avviso di garanzia, bene che vada oggi è un sospettato, nella norma è un imputato, per molti un presunto colpevole. Se è un personaggio politico, l’iscrizione nel registro prova che è un cattivo figuro.

Il premier si è messo di traverso ed ha espresso un giudizio impopolare. Ritiene che la magistratura debba fare il suo lavoro come meglio è possibile, senza condizionamenti, in piena libertà, che abbia anche diritto al rispetto, ma ritiene altresì che anche la politica meriti, fino a prova contraria, un pregiudizio d’innocenza, al pari di qualunque altra categoria sociale o professionale.

In più, considera Renzi, gli organi di governo e le istituzioni parlamentari, assemblee pubblica amministrazione, non possono sopportare una spada di Damocle sul capo eternamente. Se gli indagati devono dimettersi, potrebbero essere messe in crisi solo in base a un pregiudizio, senza alcuna contezza del merito.

La norma che pretende l’avviso di garanzia, è bene ricordarlo, garantisce il cittadino sottoposto ad indagine. Lo avverte che poliziotti e magistrati cercano verifiche su un caso sottoposto alla loro attenzione. L’indagine può nascere con un esposto, una querela, una denuncia. La notizia criminis, insomma, potrebbe essere una dritta utile e permettere la punizione di colui che ha commesso un reato, ma potrebbe rivelarsi un’accusa campata in aria, addirittura un tentativo, magari anonimo, di danneggiare l’immagine dell’indagato (ciò che gli americani chiamano characters assassination).

Siccome il magistrato deve iscrivere nel registro la persona accusata per accertarsi sulla natura della notizia, ove dovesse prevalere la tesi delle dimissioni, basterebbe un malintenzionato a mettere in crisi, un governo, un organismo parlamentare, una pubblica amministrazione.

Ben diverso, se l’indagato viene rinviato a giudizio. A quel punto, pur essendo innocente fino a prova contraria (ciò a conclusione dei tre gradi di giudizio), si pone un problema etico, o meglio, di galateo istituzionale e politico: un passo indietro metterebbe l’istituzione, o il partito, al riparo dalla vicenda oggetto dell’inchiesta dando all’indagato la libertà di difendersi nel migliore dei modi, al pari di qualunque cittadino.

Andando al caso concreto, i sottosegretari indagati rimasti al loro posto (i due pesi e due misure) è di qualche rilievo esplorare la ragione dell’iscrizione nel registro degli indagati. Davide Faraone, per esempio, deve rispondere di duemila euro spese con denaro pubblico in tre anni, nella qualità di deputato dell’Assemblea regionale siciliana. È assai probabile che, al di là dell’entità della somma, ne esca bene e presto. Se prevalesse l’intransigenza, dovrebbe dimettersi.

Se cerchiamo di vendicarci della casta, e allora questa è la strada giusta: verdetti sommari, punizioni esemplari. Ma se riteniamo che – piaccia o no – il pregiudizio non debba contare niente, allora la strada giusta è la legge, la verità processuale.

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