L’industria petrolifera in Sicilia è stata oggetto di numerosi studi nei decenni. Un aggiornato contributo ci viene ora da due economisti della “Divisione di Analisi e Ricerca Economica Territoriale” della sede di Palermo della Banca d’Italia, Francesco David e Luciano Lavecchia. Sull’autorevole “Strumenti RES. Rivista online della Federazione RES, anno n. 7, numero 1, febbraio 2015” hanno pubblicato una ricerca dal titolo “Per un pugno di trivelle: una breve analisi degli idrocarburi in Sicilia”. Poche pagine, di apprezzabile completezza grazie ad un approccio storico, economico, di prospettiva. Quasi un prontuario dell’incidenza del settore sull’economia regionale.
Lo studio sintetizza i contenuti di un ben più ponderoso e documentato contributo a firma dei due dal titolo “La crisi del settore petrolifero italiano: il caso Sicilia” che – come ci ha spiegato Francesco David – è “uscito sulla Rivista economica del Mezzogiorno a fine 2014”. Riportiamo ampi stralci del lavoro, sacrificando per ragione di spazio solo alcune parti.
“Da oltre 50 anni – osservano i due economisti – l’industria petrolifera rappresenta una componente caratteristica dell’economia siciliana; le sue vicende sono profondamente legate alle tendenze internazionali del settore.
Nel corso degli anni duemila il mercato petrolifero è stato interessato da importanti cambiamenti sia dal lato della domanda sia dal lato dell’ offerta. Nel primo caso, e soprattutto con riferimento ai paesi dell’Unione europea, si è assistito a un progressivo calo dei consumi di derivati del petrolio, aggravatosi nel corso della crisi. Tra il 2000 e il 2012, infatti, il consumo di greggio nei paesi dell’Unione è diminuito del 12,5 per cento; il calo ha riguardato sia il consumo per finalità energetiche (generazione di energia elettrica e trasporti) sia quello per finalità di trasformazione industriale. A partire dal 2007 si è intensificata la riduzione della domanda nel settore dei trasporti, che da sola ha rappresentato il 50 per cento del calo dei consumi. Oltre al rallentamento dell’attività economica connesso alla crisi internazionale, sul calo della domanda hanno inciso la dinamica negativa del mercato automobilistico europeo e la maggiore efficienza energetica dei nuovi veicoli.
Dal lato dell’offerta si sono registrate due importanti novità: nel segmento dell’estrazione e della produzione (upstream), la rivoluzione dei nuovi idrocarburi non convenzionali (shale oil e gas) che ha interessato principalmente il Nord America; nel comparto della raffinazione (downstream), l’emergere di nuovi competitors internazionali, soprattutto asiatici, più efficienti di quelli europei. L’affinamento della tecnica di fratturazione idraulica (o “fracking”), invero nota dagli anni ’50, ha determinato una crescente indipendenza degli Stati Uniti dalle importazioni di greggio e gas e, in combinazione con le restrizioni alle esportazioni imposte dal governo statunitense, un vantaggio nei costi di approvvigionamento di materia prima per i produttori americani. Le raffinerie asiatiche, più nuove e mediamente più grandi di quelle europee, godono di maggiori economie di scala e vantaggi in termini di produttività, oltre a una legislazione ambientale meno stringente di quella europea. (…).
Il risultato di queste tendenze è un persistente eccesso di capacità produttiva a livello europeo, nonostante la chiusura di diverse raffinerie negli ultimi anni. Per le raffinerie italiane, a queste criticità se ne aggiungono altre a carattere prettamente nazionale, tra le quali !’imposizione fiscale aggiuntiva nota come “Robin Hood tax” e gli aggravi in termini di oneri gestionali e burocratici (…). In questa cornice si inseriscono le vicende dell’industria petrolifera siciliana, presente in regione in tutti i segmenti della filiera: estrazione, raffinazione e distribuzione. Già al termine della Seconda guerra mondiale la regione è stata al centro di ricerche di pozzi petroliferi sfruttabili, soprattutto da parte di aziende americane.
Nel dopoguerra si diede avvio all’attività estrattiva, inizialmente concentrata nell’area di Gela, ad opera di imprese nazionali (Montecatini, Edison ed Eni) e straniere (in particolare l’americana Gulf oil). L’entusiasmo iniziale si smorzò verso la fine degli anni ’50 quando fu chiaro che le aspettative, in termini di quantità e qualità del greggio, si erano rivelate eccessive: il greggio che si estrae tutt’oggi dai pozzi di Gela e Ragusa è di bassa qualità e comporta alti costi di raffinazione. Contemporaneamente, la Sicilia, anche in virtù della sua posizione geografica, si affermò come hub nazionale della raffinazione: nel 1949, su iniziativa di Angelo Moratti, nacque la raffineria RASIOM di Augusta (oggi stabilimento della Esso); nel 1961 e nel 1962, l’Eni inaugurò le Raffinerie di Milazzo e Gela (quest’ultima direttamente connessa ai pozzi estrattivi limitrofi); nel 1975 sorsero i due insediamenti “ISAB” (nord e sud) di Priolo Gargallo (in provincia di Siracusa) ad opera della famiglia Garrone, oggi di proprietà della Lukoil”.
Attualmente in Sicilia si estrae circa un milione di tonnellate di greggio all’anno (poco meno di un quinto della produzione italiana, il resto è quasi interamente estratto in Basilicata) ed è installata una capacità di raffinazione di 43 milioni di tonnellate annue.
“L’estrazione avviene attraverso 81 pozzi a terra (on-shore) e 4 piattaforme in mare (off-shore), gestiti da Eni Mediterranea idrocarburi S.p.A. (Enimed), Edison S.p.A e Irminio S.r.l.. A fine 2012 gli occupati diretti erano 280, a cui si aggiungevano i circa 650 addetti dell’indotto; nello stesso anno il segmento dell’upstream ha generato quasi 90 milioni di gettito fiscale e circa 22 milioni di royalties per lo sfruttamento dei pozzi. Le 4 raffinerie siciliane, che producono circa il 40 per cento dei derivati petroliferi italiani, occupavano 3.350 addetti diretti e circa 5.800 nell’indotto.
Il gettito fiscale delle 3 raffinerie di Gela, Milazzo e Priolo alla fine del 2011 ammontava a poco meno di 60 milioni; il downstream siciliano rappresenta inoltre il principale driver delle esportazioni, con 7,9 miliardi di export in media all’anno nel 2010-2012 (pari al 72 per cento delle esportazioni regionali).
(…) “A giugno – scrivono David e Lavecchia – è stato sottoscritto un protocollo di intesa tra la Regione Siciliana, Assomineraria (associazione di categoria che rappresenta l’industria mineraria e petrolifera) e le 3 aziende attive in Sicilia nell’upstream. Il documento stabilisce dei principi di leale collaborazione tra l’ente pubblico e le imprese al fine di contemperare le esigenze di superamento della crisi e di recupero della competitività di queste ultime con quelle di salvaguardia del territorio. A fronte di investimenti previsti dai piani industriali delle aziende per circa 2,4 miliardi, la Regione si è impegnata a mantenere un quadro normativa stabile e a intraprendere iniziative volte alla semplificazione e velocizzazione degli iter autorizzativi, in modo da rispettare i tempi previsti dalle normative vigenti. Nel mese di novembre, inoltre, è stato siglato, presso il Ministero dello Sviluppo economico, un protocollo di intesa per la riconversione della raffineria Eni di Gela. Del protocollo (…) non si conoscono ancora i contenuti ufficiali; dalle notizie di stampa l’intesa raggiunta sembra ruotare intorno alla trasformazione dello stabilimento in bio-raffineria e base logistica per le attività on e offshore del gruppo (mantenendo così i livelli occupazionali diretti e dell’indotto), in cambio dell’autorizzazione di nuove concessioni per la ricerca e l’estrazione sia di greggio che soprattutto di gas, in particolare da piattaforme in mare.
Il mantenimento degli impegni sottoscritti dalla Regione – concludono i due economisti – necessiterà della condivisione politica degli obiettivi di politica industriale e del consenso sociale, soprattutto intorno alle nuove attività estrattive, che si potrà ottenere con precisi impegni e garanzie di tutela ambientale da parte delle aziende coinvolte”.
Come sottolineato nelle conclusioni, sul futuro dell’industria petrolifera siciliana – sia, in particolare, a proposito di estrazione ma anche di raffinazione di greggio importato – molto incideranno due temi: consenso socio-ambientale e costi/redditività dell’estrazione. La cosiddetta “Sindrome Nimby” (“Not in my back yard” ovvero “Non nel mio giardino”) trova come è ovvio terreno fertile in un settore inquinante e nocivo per la salute come gli idrocarburi. A fronte di pochi comuni favorevoli alle trivellazioni di petrolio e metano sui loro territori – fonti di preziose royalties per le esangui casse municipali – la tendenza prevalente tra i gruppi d’opinione e in ampie fasce della popolazione (non parliamo di chi ha maggiore vocazione ambientalista…) sembra essere ormai quella di chiudere per sempre in Sicilia il capitolo estrazione sulla terraferma e in mare. Scelta forse affrettata in una regione economicamente allo stremo ma che è sempre pronta, quasi emotivamente, a precludersi spazi di crescita economica e a schierarsi “a prescindere” contro la realizzazione di opere pubbliche o di produzione energetica. E’ anche vero che è insostenibile da Gela a Priolo alla costa tirrenica il prezzo pagato dalle popolazioni a raffinerie e impianti per la lavorazione degli idrocarburi, nocivi e ammorbanti come pochi altri.
Il secondo tema: indipendentemente da cosa sarà alla fine deciso, l’estrazione in Sicilia comincia ad essere competitiva e sostenibile dalle società petrolifere – vogliamo sperare non nelle aree archeologiche o nelle riserve ambientali! – solo in fasi congiunturali di alti costi internazionali del greggio. In epoca di prezzi stracciati come l’attuale non conviene investire in Sicilia per estrarre petrolio e metano, costosi da portare in superficie e lavorare e – come letto – di qualità non eccelsa. Se non aumenterà il costo del greggio (gli analisti comunque ne prevedono una risalita a breve; risalita che comporta per il nostro paese una impennata della bolletta energetica e per noi cittadini un aumento delle spese per trasporto ed energia) il dibattito ambientale, acceso ed importante per quanto possa essere, rimane una variabile dipendente da fattori esterni di mercato. Fattori lontani e non controllabili rispetto alla nostra “Sindrome Nimby” e ai nostri guai con la salute, alle prese con tassi di incidenza tumorale da brivido nelle aree siciliane dove è presente l’industria petrolchimica.
Fin quando i benefici per la regione resteranno insignificanti in rapporto ai sacrifici sul territorio, non credo che risulterà conveniente intraprendere oggi questa strada.
Di contro, come ben evidenziato, estremizzare comporta un diniego a qualunque iniziativa, oggi, a queste condizioni o un domani con prospettive diverse, in un contesto socio economico da territorio europeo di area sottosviluppata… scusate, sotto utilizzata…
Affrontare questo argomento con attenzione, informazione e scrupolo è molto importante considerando che per molti siciliani, estrazione del petrolio vuol dire benzina a metà prezzo ….. cosa ben diversa da un tipo di scelta e di investimento-resa-impatto sul territorio che dovrebbe coinvolgerci con un pò più di consapevolezza…ed informazione.
Infine lasciare che i singoli comuni possano scegliere in funzione di un ristoro economico per i bilanci in crisi come se fosse un parcheggio a pagamento, sarebbe una scelta, l’ennesima forse, irresponsabile e pericolosa rafforzando una mancanza di regia in termini di progettualità e pianificazione. Ma si sa, l’estemporaneità è la forza e l’arma più convincente della nostra classe politica…
Un caro saluto
Massimo M.