Ferla al Beit Beirut Urban Museum: da Palermo un messaggio di pace in un insediamento di guerra

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Dal 24 maggio 2018, il Beit Beirut Urban Museum, ospiterà la mostra: “Palermo, Norman-Arab-Byzantine culture. Photography by Francesco Ferla”, organizzata dall’Istituto Italiano di Cultura di Beirut, in collaborazione con il Comune di Palermo, mostra che rientra nel palinsesto di “Palermo Capitale Italiana della Cultura 2018”.

Il progetto ha come fine lo scambio culturale in nome dell’amicizia e della reciproca conoscenza, e, attraverso l’esportazione fotografica delle nostre architetture arabo normanne, esempio altissimo di integrazione multietnica, pratica una politica chiara di apertura nei riguardi dell’Islam e dei paesi del medioriente, secondo una consolidata amicizia e comunione di interessi culturali, economici e sociali. La mostra di Francesco Ferla viaggia in questa direzione multietnica e culturale e porta al Beit, insediamento di guerra, simboli di pace, di fratellanza, e di libertà.

Beirut, come Palermo, è il prodotto di una sovrapposizione di differenti principi insediativi: fenicio, greco-romano, bizantino, arabo, medievale, ottomano e francese: tra distruzioni, ricostruzioni e dominazioni, la città cambia continuamente volto mantenendo intatte le sue spirali storiche da un lato, e la “struttura a grappolo” dall’altro. A quasi tre decenni dalla fine della guerra civile in Libano, Casa Barakat, un elegante edificio in stile ottomano nel centro di Beirut, conserva ancora tutti i segni di quel conflitto. Sui muri, i fori dei proiettili sono stati evidenziati da un restauro non sempre condivisibile: la facciata sta in piedi grazie ai rinforzi di cemento armato e le colonne sono circondate da strutture di ferro. L’idea dell’architetto Youssef Haidar a cui il Comune ha affidato il restauro, di aggiungere protesi per le parti danneggiate del palazzo è in alcune parti troppo brutale e il modo in cui è stato eseguito ha aggiunto un tocco aggressivo all’edificio che non aveva nemmeno quando era segnato dalla guerra. I fori dei proiettili finti sulla facciata, in un certo senso, sembrano ridicolizzare quelli veri. La rampa che ha sostituito le belle scale a cielo aperto di Fouad Kozah ha dei supporti verticali pesanti che ostacolano la trasparenza del vecchio edificio e attraverso di essa verso la città alle spalle, una caratteristica unica che avrebbe dovuto essere mantenuta nella nuova aggiunta. Il palazzo Barakat, oggi ribattezzato Beit Beirut, rimane comunque luogo di molte storie, di storie segrete non scritte sui libri, e sarà probabilmente il futuro museo della città e della sua memoria; il suo “restauro”, se da un lato è stato criticato, dall’altro riesce, proprio in forza della sua aggressività, a creare potenti suggestioni come nel caso dell’architetto Ferla, autore della mostra, che l’ha sentito e vissuto come appropriato.

Dal racconto urbanistico di Francesco Ferla il Barakat, distrutto e danneggiato come tutti gli edifici visti lungo il percorso, ha qualcosa di diverso: dall’incrocio, guardando l’edificio, attraverso di esso si vede il cielo, come se dietro non ci fosse nulla. Una luce molto più forte della distruzione. Un edificio con dentro di sé il cielo. Il palazzo è stato intenzionalmente costruito per creare una trasparenza visiva e un rapporto con la città in qualunque posizione dell’edificio ci si trovi: una cosa rara, anche nelle costruzioni contemporanee.

“Quando sono entrato ho scoperto postazioni di cecchini e stanze per poter uccidere mirando in determinate direzioni. Un’architettura bellica, un’architettura di morte. Di colpo quel bel palazzo tutto luce e pietra dorata si trasforma in un luogo di morte, un fortino dove qualcuno si era sistemato per uccidere. Quindi io stavo nella postazione del cecchino e guardavo la città attraverso i suoi occhi, invece di osservarla con gli occhi dell’architetto. La sovrapposizione sugli stessi assi visivi delle due prospettive, quella dell’architetto che ama la città e quella del cecchino che uccide, è stata profondamente impressionante”.

Ora questo edificio, come epidermide, come contenitore, danneggiato, per molti, anche dalla ristrutturazione- è allo stesso tempo così forte che si riesce a distinguere l’edificio originario, si vedono gli ampliamenti recenti e si può osservarne la differenza, un palazzo ancora abbastanza forte da rinnegare gli ampliamenti e quasi rifiutarli dal punto di vista visivo, lasciando libero lo sguardo dei visitatori di posarsi dove trova sintonia e comprensione.

“Come museo della memoria è un tentativo di riunificare la città e ripristinarne il valore nei riguardi dei cittadini, in modo che chi ci entra impari qualcosa, della città. Non è un monumento alla guerra civile, non si tratta di chi ha ucciso chi e quando, della cronologia della guerra ma di cosa è successo durante la guerra a un essere umano, e a una città”. (…) “Ho lasciato che l’edificio mi dicesse quel che mi voleva dire, e mi ha raccontato la storia in vari modi, insegnandomi soprattutto che il lato brutale della guerra è che la nostra vita si ritrova completamente allo scoperto”.

Il progetto di allestimento di Ferla si traduce così in un atteggiamento di grande rispetto del “luogo”: l’installazione è interamente a terra, una pavimentazione che rievoca gli schemi geometrici dei tappeti-preghiera delle moschee -che indicano il posto del fedele-, forme di croce per i cristiani, planimetrie delle nostre chiese ma anche forme quadrate con moduli seriali, percorsi fotografici che si slanciano come preghiere pure e ordinate e raccontano viaggi nel tempo e nelle architetture. L’austerità di quei buchi neri alle porte, alle pareti che hanno procurato sofferenza e morte abbassano lo sguardo fino al pavimento quasi naturalmente, e inginocchiarsi e pregare come farebbe ogni mussulmano diventa gesto spontaneo, un’aspirazione intima dell’anima in un convegno solitario, una meditazione utile e profonda capace di trasportare con grande sincretismo oltre le cose mutevoli, unendo fili invisibili a quanto vi è di fisso, di permanente, di immutabile: il miracolo sono le foto di Francesco Ferla, così suggestive e piene di cielo che quello sguardo riempono di bellezza.

Beirut, come Palermo, è una città che lascia un segno nei visitatori e continua a viaggiare con loro stessi, così Francesco Ferla, dalle pagine di Facebook, può comunicarci infine la sua esperienza di lavoro, empatica e fortemente emotiva:

“Ho aspettato il sole delle 13, a piombo, per andare via con questo ricordo di Beirut… ho atteso che la luce entrasse dai buchi incredibili nelle volte della Cattedrale greco-melkita cattolica di St. Elias: non avevo mai visto una bellezza simile, il soffitto come un cielo stellato”.

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