Mr. Capone a tavola, non è Al ma va rispettato

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Questo straordinario pesce da noi conosciuto come “Capone”, strasmutando al maschile, chissà perché, una lampuga al femminile, era noto persino ad Hemingway, che lo inserì in un suo libro, lui che di mare se ne intendeva, ma questa cosa fu foriera di un curioso episodio che riguarda Fernanda Pivano, eccellente traduttrice del sudddetto scrittore americano, anche lei scrittrice, giornalista e critica musicale italiana.

Nell’inglese americano, un nome comune per la specie in questione è dolphinfish, spesso abbreviato dai pescatori in dolphin. Il termine può quindi generare facilmente confusione con “delfino”, inteso come mammifero marino. Comprensibile quindi l’equivoco in cui è caduta proprio la Pivano, la quale, nella sua versione italiana de “Il vecchio e il mare” di Ernest Hemingway, descrive il protagonista che “issa a bordo un delfino e… se lo mangia tutto!”.

Il nome scientifico della lampuga è invece “Coryphaena hippurus”, ma è nota anche come “corifena cavallina” che ama cibarsi di pesci più piccoli purché siano volanti.

La ricetta più conosciuta è quella che nasce dalla tradizione raccontata dai pescatori di Porto Palo di Capo Passero (l’estrema punta sud-orientale della Sicilia, in provincia di Siracusa) e vuole la lampuga cotta in umido, che esalta in modo particolare il sapore di questo pesce stagionale, non sempre disponibile nelle pescherie o nei ristoranti. Questa versione, detta alla siciliana o alla palermitana o anche alla matalotta, prevede che, una volta tagliata a tranci, la lampuga sia messa in un grosso tegame in cui sono stati fatti soffriggere, con poco olio, una cipolla piccola e due spicchi d’aglio, che si sfumi con mezzo bicchiere di vino bianco per qualche minuto e che poi si aggiungano pomodori pelati, un po’ di zucchero per eliminare l’acidità e una manciata di prezzemolo tritato. Si serve con altro prezzemolo tritato e con l’eventuale aggiunta di capperi e olive verdi snocciolate. Ma la lampuga può essere anche sfilettata e fritta dopo averla passata nell’uovo e nel pangrattato, proprio come una cotoletta, oppure cotta alla brace o al forno, affumicata, arrostita, o anche cucinata con limone e capperi, preparata al sale, al cartoccio, alla mugnaia, al pomodoro… Insomma, con poca spesa e poca fatica, si possono ottenere tante ottime preparazioni gastronomiche grazie a questo pesce azzurro , non molto conosciuto al di fuori della Sicilia, adorato dai palermitani nella sua stagione di passaggio, l’autunno.

Il nostro Capone palermitano che tanto ci ricorda Al Capone per la robustezza, la sicurezza di sé, il profumo unico e un po’ borioso, è un pesce bellissimo dai colori sgargianti che scompaiono però quasi completamente dopo la cottura.

I pescatori professionisti siciliani, specialmente nella zona di Porto Palo di Capo Passero, hanno inventato un ingegnoso metodo di cattura: la pesca con le ombre, basata su un sistema di richiamo particolarmente valido. Consiste nel piazzare, al largo delle coste, gruppi di foglie di palma intrecciate tra loro in modo da creare una sorta di ampio ventaglio (cannicci) tale da provocare una zona d’ombra in superficie; una zavorra a fondo fa sì che i cannicci non vengano trasportati dalla corrente. Oggi, molto più sbrigativamente, al posto delle foglie di palma si utilizzano spesso fogli di polistirolo o giornali. Le lampughe, in cerca di riposo durante i lunghi viaggi migratori, si radunano sotto la zona d’ombra e da qui vengono catturate con reti da circuizione, a loro volta legate ad una cima lasciata andare in profondità con dei pesi di zavorra che la trattengano al fondo per evitare che siano trascinate via dalle correnti. Le imbarcazioni poi circondano i cannicci e con queste reti riescono a catturare diversi esemplari. I cannicci sono anche furbescamente impiegati dai pescatori sportivi che, passando vicino con canne da traina, riescono a riempire il paniere senza eccessivo sforzo.

Possiamo sbizzarrirci in questo  autunno siciliano solare e un po’ ventoso a cucinare il capone come meglio si adatta alle nostre giornate e al nostro gusto, magari ripassando, a proposito di pesci, una splendida poesia di un nostro poeta palermitano, amato fin su per i Nebrodi, soprattutto a Capo D’Orlando, presso Villa Piccolo, dove visse quasi tutta la vita:

 

Al mare, all’onda intento

getto la rete e quando
la ritraggo esitando
non trovo celestine
squame guizzare
non cefali ed ombrine
dal brivido d’argento
ma sogni senza fine
ghirigori sul vento
di spume cristalline.

Lucio Piccolo, L’inganno della rete, Scheiwiller

in foto: pescatore di Levanzo, wikipedia

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