A proposito di buona scuola:
come si insegna l’antimafia

A proposito di buona scuola: <br /> come si insegna l’antimafia

Una volta l’anno gli studenti delle scuole italiane si occupano di mafia e di crimine organizzato. Avviene nel giorno dell’anniversario dell’attentato di Capaci, in cui persero la vita Giovanni Falcone, la moglie e la sua scorta.

E gli altri giorni, a proposito di buona scuola, come si insegna l’antimafia? Qualcosa è cambiato, ma fino a che punto? Non c’è spazio per questi temi. Governo e sindacato sono impegnati su altri fronti: l’autorità dei presidi, l’autonomia dei prof, la precarietà.

Che cosa sanno veramente i ragazzi delle mafie, della loro evoluzione, del potere che riescono ad esercitare nella società e nelle istituzioni?

Non siamo certo all’anno zero, ma a che anno siamo?

La scuola occupava d’altro: gli eroi del Risorgimento, l’epopea del carroccio, le virtù dell’Impero romano e dell’antica Grecia. Non che non fosse utile tutto ciò, ma il sapere restava lontano dalle brutte vicende di tutti i giorni che ottenevano una sorta di immunità, una specie di lasciapassare dello spirito impegnato altrove dalle storie di santi ed eroi. L’istruzione scolastica concedeva di guardar lontano, alla grande storia del popolo nostro, alle belle arti, ma non concedeva di guardar vicino a ciò che accadeva davanti al portone di casa. Una presbiopia casuale o ben meditata?

La memoria è fatta ancora oggi di visi familiari, di maestri e professori benevoli e scrupolosi, ma per nulla partecipi della vita sociale, figli di una scuola – a loro vol­ta – ben più omertosa di quella che ebbi la ventura di frequentare. Dalle elementari al ginnasio, al liceo e all’università, non c’è episodio, uno solo, che consenta il ricordo di una informazione, una discussione, un semplice dialogo sulla mafia siciliana. E di­re che quegli anni – dal dopoguerra al ’50 e giù fino al ’60 – attraversarono come una bufera la storia siciliana con la mattanza dei sindacalisti uccisi dalle lupare mafiose, le stragi del bandito Giuliano, fino ai cadaveri dei poliziotti di Ciaculli, a Palermo.

Mi insegnò di più – nel bene e nel male - il film di Pietro Germi In nome della legge che molti anni di scuola, sulle mafie del Paese nostro e d’altri luoghi. Il crimine – quello di mafia – l’ho visto così sotto una luce particolare, come ammantato da un’aura. Seppur deplorevole, il delitto di mafia aveva diritto all’onore delle armi, essendo compiuto da uomini d’onore, che tenevano in gran conto la parola, l’amicizia, la lealtà ed esercitavano sempre e comunque una certa forma di giustizia.

Il capomafia non era un semplice appaltatore di delitti come l’Innominato dei Promessi Sposi – ma il capo del paese, un capo conosciuto e rispettato, che dispensa consigli con saggezza, concilia conflitti con moderazione, ha manie­re, gesti, parole che pretendono rispetto. La sua giustizia era provvista di sanzioni, esercitata da uomini veri, a differenza di quella formale affidata al dimesso maresciallo dei carabinieri o all’ambiguo pretore onorario, ineluttabilmen­te coinvolti nelle vicende locali e da esse sequestrati.

Da molti anni la scuola non è più unica sorgente del sapere né fonte primaria dell’informazione: i mezzi di comunicazione la relegano spesso ai margini, o quasi, del percorso educativo. Ciò le impedisce di aiutare i giovani a riordinare la folla di informazioni che ricevono e discutere le reazioni che esse provocano. La conseguenza è che prima gli studenti non sapevano a causa dei silenzi e oggi non sanno a causa del rumore prodotto dal bombardamento di notizie.

Fuori dalla scuola, comunque, non va meglio; le conoscenze sulla mafia sono confuse, scorrette, superficiali, influenzate dalla tendenza a romanzare il fenomeno, a fame oggetto di riflessioni di costume, o a mitizzarlo, spettacolizzarlo, o a usarlo nei conflitti tra partiti. Per alcuni tutto – o quasi – è mafia; per altri la mafia è sopravvalutata: per altri ancora «ha il volto delle istituzioni» (sarebbe, cioè, diretta da uomini dello Stato) o è solo delinquenza organiz­zata. Stato ed antistato, frutto di fantasia e terribile realtà.

I giovani apprendono le gesta delle mafie attraverso immagini di quotidiana atrocità: la radio, la televisione e il giornale sono veicoli di apprendimento privilegiato, ma ogni messaggio che inviano – sia esso contenuto negli spazi destinati all’informazione o in altri contenitori – rappresen­ta soltanto uno dei modi di raccontare la notizia attraverso le immagini, i suoni, le parole, il testo scritto.

Chi ha il compito di educare il giovane destinatario della notizia alla corretta fruizione del messaggio? Quali conoscenze egli possiede per accoglierla consapevolmente ed utilizzarla come momento della sua maturazione, controllandola, discutendola, confrontandosi con essa? Di quali elementi dispone per respingere la slealtà del messaggio e non rimanerne emotivamente soggiogato?

La scuola, oggi, annovera atteggiamenti educativi assai diversi verso i mezzi di comunicazione: li combatte, giudi­candoli diseducativi; rinuncia rassegnata al suo ruolo; semplicemente, li ignora; talvolta se ne serve opportuna­mente, cercando in essi stimoli, incentivi, strumenti per un percorso educativo che soccorra l’apprendimento miglio­rando l’interesse e sveli il processo di formazione della notizia, dei mezzi e degli uomini che la realizzano.

In definitiva, la scuola ha nuovi compiti ma il medesimo ruolo di sempre: strumento di crescita culturale, sociale, civile. Ogni cittadino consapevole, informato, colto, è un potenziale nemico delle mafie.

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