Violato il segreto di Gela, la storia dei gemelli Pellegri: Rocco e il suo doppio

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Gela ha conservato un segreto gelosamente. Forse è l’unico che sia stato mantenuto dalla comunità sportiva locale,quasi che fosse stato firmato un patto di sangue. Il segreto è rimasto inviolato, nonostante la consuetudine a raccontare tutto ai quattro venti.

“Che tempo che fa”, la trasmissione di Rai 1 condotta da Fabio Fazio, ha mandato all’aria la consegna del silenzio. E’ accaduto qualcosa, che ha fatto scattare la voglia di liberarsi del segreto, di far venire fuori la verità a lungo nascosta. Una delle ospiti di Fabio ha raccontato di essere stata premiata per una bizzarra ricerca sui gemelli. I monozigoti, ciò quelli nati dallo stesso ovulo, così simili da risultare indistinguibili, sono stati monitorati e interrogati, se fossero capaci di riconoscere…se stessi. La ricerca ha rivelato che molti non sono riusciti ad indovinare se la immagine impressa su una foto appartenesse a se stessi o al fratello gemello.

L’utilità della ricerca non è chiara, anzi lascia piuttosto perplessi, ma un merito la ricerca ce l’ha, ed è quello di avere convinto chi scrive a svelare il segreto così ben custodito, essendo stato testimone (quasi) oculare in giovane età dei fatti.

Ecco di che si tratta. La squadra del Gela ha anticipato di molti anni l’allargamento da 11 a 13 del numero di giocatori da impiegare nel corso di una partita, utilizzando i gemelli, passati alla storia come i “jemuli”, che nel dialetto locale significa appunto gemelli. Erano due gocce d’acqua, avevano capelli ricci, biondi ed occhi chiari, e qualche inciampo nell’affabulazione a causa del fatto che non riuscivano a pronunciare la “r”. Un tratto caratteriale più che un handicap, indizio di sangue blu, quindi un vezzo piuttosto che un difetto, segno di appartenenza ad una famiglia aristocratica.

Ma i “jemuli” erano dei bei ragazzi della media borghesia gelese, persone per bene, gentili ed educate, avevano un bel tocco di palla. Il gioco del calcio era per loro un hobby e non una professione. Entrambi con le stesse caratteristiche, entrambi “mezze ali” . Insomma “abatini”, come avrebbe scritto il grande Brera.

Nel primo tempo veniva impiegato Rocco e nel secondo il fratello. Perciò la prestanza atletica dei “jemuli” era a prova di bomba. Talvolta durante la ripresa,  dal 46 al 90esimo minuto, il gemello entrato in campo, fresco e pimpante, faceva la differenza.

Gli arbitri non riuscirono mai a scoprire l’espediente e la cosa andò avanti a lungo . Ciò che  tutti ricordano è che nei preliminari, prima dell’entrata nel terreno di gioco, fra il direttore di gara e uno dei “jemuli”, di nome Rocco (Pellegri di cognome), si svolgeva una curiosa conversazione: gli arbitri cambiavano la conversazione rimaneva la stessa. “Come si chiama”, chiedeva a Rocco, l’arbitro per identificare il giocatore. “Sono Joco Pellegri”, rispondeva Rocco, a causa della erre moscia. Al che l’arbitro, perplesso, replicava inevitabilmente: “Lo so che lei gioca, ma vorrei che mi riferisse il suo nome”.

La conversazione sarebbe andata avanti ogni volta per un po’, fino a quando il dirigente di turno della squadra di Gela non si decideva a riferire che quel ragazzo stava obbedendo alla legittima ingiunzione della giacchetta nera (il colore allora era nero…), declinando le proprie generalità nell’unico modo a lui possibile, essendi impossibilitato a esprimersi nel modo giusto.

Anche il gemello di Rocco aveva questo “vezzo”.

Gli undici uomini in campo, grazie ai fratelli Pellegrino, erano in realtà dodici. Il fratello di Rocco giocava il secondo tempo, Rocco il primo. E continuarono così fino a che i gemelli non decisero di lasciare il calcio.

Ora lGela non ne ha più di segreti.

Forse.

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