Giovanni Falcone decapitato, il sospetto del grande intrigo. Caccia agli untori

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Giovanni Falcone è rimasto un obiettivo sensibile anche da morto. Violentare la sua immagine, deturparne il ricordo, vandalizzare la sua icona è un messaggio forte che guadagna la prima pagina e uno spazio nei network nazionali, quanto lo sfregio del David di Donatello. Il messaggio è inequivocabile: a Palermo ci sono ancora i nemici di Giovanni Falcone, e cioè della legge, dello Stato, della legalità, della convivenza civile.

L’impatto di un episodio, come quello che si è verificato in una scuola di Palermo – il taglio della testa del busto di Giovanni Falcone – è molto duro: indigna, addolora, inasprisce gli animi, allarma, suscita inquietudine, avverte sulla presenza di un clima ancora “torrido” nel mondo del crimine organizzato.

La magistratura inquirente e le forze dell’ordine hanno fatto molto per contrastare le mafie, il livello di sicurezza è migliorato in modo significativo, Cosa nostra siciliana ha dovuto lasciare alcune sue postazioni, al punto da scendere dal “podio”. Non è certo scomparsa, ma ha dovuto fare passi di lato significativi.

Nel frattempo la città, e la Sicilia in qualche misura, si è conquistata una buona immagine. G7, moda, arte: non più l’isola della mafia, ma terra di cultura, opere d’arte, grandi eventi, artistici e di spettacolo.

Palermo in gran spolvero è stata colpita a tradimento. Servendosi di Giovanni Falcone, delinquenti senza scrupoli, probabilmente ben gestiti, cercano di riportare l’orologio indietro e di vanificare gli sforzi di quanti aspirano alla normalità.

Basta niente – nel senso della facilità con cui si può colpire – per essere ricacciati indietro. Se è così non possiamo accontentarci dell’indignazione, del rammarico, il dolore, la rabbia, ma abbiamo il sacrosanto dovere di venire a capo di vicende come quella appena registrata, la devastazione del busto di un eroe antimafia. Non può essere considerato alla stregua di un atto di vandalismo.

Non ci convince per nulla che si sia trattato di una bravata, uno sgarro, un’offesa, una vendetta. C’è molto di più, a causa delle conseguenze. Il sospetto che si sia voluto far danno, proditoriamente, ce l’abbiamo. Non è un’offesa all’antimafia, rappresentata al massimo livello, da Giovanni Falcone, pensiamo che abbiano utilizzato Falcone per ricacciare indietro Palermo e la Sicilia e far sì che rimanga l’isola della mafia e basta.

Se le teste sofisticate, per citare Falcone, non c’entrano niente – che interesse avrebbero i boss ad alimentare veleni? – c’è una ragione in più per assicurare alla giustizia, con una punizione esemplare, gli untori. Se si fosse trattato di piccoli delinquenti, avremmo fatto chiarezza sull’accaduto. Un modo per rimediare al danno, enorme, di immagine.

Il nostro sospetto non è suscitato soltanto dall’obiettivo scelto, il busto del magistrato, ma anche dal tempo scelto: ci sono giorni – dalla fine di maggio alla seconda settimana di luglio, il tempo delle stragi – che assicurano ridondanza ai crimini, ne aggravano la portata ed il significato. Tutto questo potrebbe essere stato studiato a tavolino da teste pensanti.

 

Nell’alveo del sospetto non possiamo lasciare fuori la politica, invelenita da mille episodi. Il linguaggio segna il tempo che viviamo, ma non viene generalmente accostato alle azioni criminose. Semmai avvelena il clima e lo rende compatibile con le azioni più abiette.

Si può recare offesa ai morti, eroi e non, e danno alla propria terra, per raccogliere consenso, o seminare dissenso? E’ lecito, a questo punto, porsi la domanda, senza farsene affascinare, magari per trovare il capro espiatorio nel “nemico” politico.

Gli inquirenti sanno, comunque, che trovare il colpevole – o i colpevoli – dello sfregio a Giovanni Faocone non è solo una questione d’onore, ma anche un mezzo per disinnescare la bomba mediatica che getta discredito su tutto e tutti.

 

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