Province, promozioni e bocciature
Sarà battaglia campale

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(essepì) A cavallo degli anni Cinquanta-Sessanta Silvio Milazzo, ormai nel suo buen retiro calatino, lanciò l’idea della CaltaGela, una provincia anomala che mettesse insieme petrolio e ceramica, industria ed arte, due popolose e vivaci città vicine, che fino ad allora si erano guardate in cagnesco per via della mitica disputa politica fra Salvatore Aldisio e Mario Scelba, gelese il primo, calatino il secondo. La CaltaGela avrebbe disarticolato la provincia di Caltanissetta, facendone un’isola dell’entroterra: miniere, zolfo e Vallone.

L’idea ebbe una buona accoglienza nell’opinione pubblica delle città interessate, ma fu subito avversata dagli apparati politici provinciali. Siccome a contare erano i capoluoghi, ben presto abortì. Sicché l’invocazione al Duce dei gelesi nel corso di una sua memorabile visita sul finire degli Anni Trenta, – “Duce, niente vogliamo: Gela provincia e bacino montano” – è rimasta, a seconda delle circostanze, un ritornello beffardo o un nostalgico auspicio. Comunque la si giri, il centralismo dei partiti – provinciale, regionale, nazionale – è stato un freno alla riforma amministrativa. Da sempre.

La Sicilia è affollata di città “orfane” del titolo di capoluogo, status quo che il Fascismo aveva assegnato sulla base di vecchie tradizioni e del potere preponderante dei federali. Piazza Armerina, la città degli studi, subì lo smacco a favore di Enna; Modica, mitica capitale della Contea, dovette tollerare l’affronto di Ragusa. In provincia di Caltanissetta la spuntò Caltanissetta, la capitale mineraria, e Terranova di Sicilia divenne Gela.

Le città che si sentono “defraudate” del titolo di capoluogo in Sicilia sono tante, ma nessuna ha potuto coronare il suo sogno – a prescindere dell’utilità – perché le segreterie provinciali dei partiti e le corporazioni hanno spento sul nascere ogni velleità “interna”. Avrebbe significato ridisegnare anche le circoscrizioni elettorali e l’organizzazione dei partiti con sviluppi imprevedibili.

La mappa delle città “importanti” in Sicilia è affollata: Canicattì, Sciacca, Marsala, Milazzo, Alcamo, Caltagirone, Modica, Gela, Piazza Armerina, Barcellona per citarne solo alcune. Ed è proprio in questi centri popolosi, talvolta nevralgici per la vita economica della provincia cui appartengono, che in questi giorni il dibattito sull’abolizione delle province si è fatto caldo. Qui gli abolizionisti prevalgono perché si spera in un cambio.

Nei capoluoghi, invece, si fanno barricate. Ma l’uno e l’altro atteggiamento si manifesta in modo precipuo nel ristretto “recinto” degli addetti ai lavori. I partiti insomma, sono attenti e sensibili ai cambiamenti che trascinano nuovi equilibri politici. Per grandi linee si può affermare che nel centrodestra prevale la conservazione dell’attuale assetto, nel centrosinistra la riforma, nel centro una modifica soft che salvaguardi le consultazioni.

Finora gli apparati l’hanno fatta da padroni. Non solo politici, intendiamoci. Modificare l’assetto delle province infatti implica un profondo cambiamento in ogni settore. Servizi e uffici pubblici, organizzazioni sindacali e di categoria, ordini professionali, prefetture, questure: sarebbe un mondo da rimodulare di sana pianta. Anche per questa ragione non se n’è fatto niente finora: avversari forti, difficoltà oggettive, apparati politici solidi ed inattaccabili.

Ma ora la neve si sta sciogliendo. I partiti hanno perso carisma e voti, e l’opinione pubblica, in larga maggioranza, privilegia la necessità di abbattere i costi della politica, che sono strettamente connessi struttura della pubblica amministrazione. Un’inchiesta di Repubblica, domenica, ha fatto i conti sui costi: 700 milioni di euro l’anno, il budget delle amministrazioni provinciali. Per gettoni, stipendi, indennità a presidenti, assessori, consiglieri. Un esercito di 350 unità. Poi ci sono le segreterie, le auto blu e tutto ciò che gira, inevitabilmente, attorno ai partiti.

Tutto questo non viene più tollerato. L’ammaina bandiera nei capoluoghi è vissuto come una intollerabile ingiustizia, la cancellazione per legge di gonfaloni e tradizioni. E in un contesto che tiene in piedi poche opportunità di lavoro l’abolizione delle burocrazie e il decentramento appare come un grave pregiudizio all’economia della zona.

È innegabile, però, che il taglio dei costi della politica ha guadagnato molti consensi, e che risparmiare risorse pubbliche con un riassetto di funzioni e competenze è considerata ormai una priorità. L’indirizzo del governo nazionale – abolizioni, accorpamenti, pochi assessori e consiglieri ed elezioni di secondo grado (sindaci e consiglieri comunali), ha incontrato forti resistenze e in Sicilia il tentativo di riformare funzioni e competenze è caduto in disgrazia dopo pochi mesi sedici mesi or sono.

Ora si tratta di far convivere i campanili – le tradizioni, noblèsse oblige – con una profonda riforma burocratica, rinunciando alla tornata elettorale, con i consorzi di comuni, che lo Statuto speciale della Regione siciliana aveva fatto nascere sulla carta settanta anni or sono. La coperta è diventata corta, e la Sicilia odierna non può vivere di burocrazia, se vuole conservare il futuro. La riforma amministrativa è ormai una necessità inderogabile.

Gli abolizionisti stanno guadagnando terreno, le nuove realtà politiche, che non hanno apparati, auspicano una riforma radicale. Ed il governo regionale pare intenzionato a percorrere la strada della riforma. Ma sarà una guerra all’arma bianca, non c’è dubbio.

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4 Commenti

  1. nella abolizione dei costi delle provincie vanno assommati quelli del costo di gestione,che non sono solo quelli del personale ,che in ogni caso ,andando in esaurimento rappresenterà un capitale su cui investire negli anni ,ma quello del funzionamento ,affitti ,energie ,e quantoaltro ,il risparmio sarà notevole ed imortante ,purchè i consorzi siano realmente liberi ,ossia realizzati dalla pura volontà dei comuni e non da una indicazione politica centrale ,che dovranno con loro rappresentanti ,sindaci o loro fiduciari ,amministrare la nuiva realtà territoriale .Dovrebbero di concerto sparire le nove prefetture ,visto che per statuto ,la rappresentanza dello stato spetta al Presidente che è anche capo della polizia.

    saluti

  2. le province? totalmente inutili. IPARCHI E RISERVE? Inutili. UNIONE DI COMUNI liberi di associarsi e condividere i costi di gestione. PREMIALITà per quelli che fanno meglio. LA REGIONE regia di tutto con pochi uffici ben organizzati e snelli massimo tre persone. priorità principale ….FONDI EUROPEI progetti e non perdere neanche un momento. GRAZIE PRESIDENTE CROCETTA

  3. se si eliminano le province i comuni affonderanno tutti e tutti i servizi sopratutto pubblici che che fa la provincia saranno tutti abbandonati e noi cittadini ne piangeremo le conseguenze,solo per il piacere dei grillini. che legano le province solo alle spese politiche che sicuramente andranno ridotte e di molto ma l’abolizione non funziona ce ne accorgeremo dopo

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