(Alberto Di Pisa) Sono passati 25 anni da quando l’Autostrada da Punta Raisi a Palermo fu devastata da una bomba al bivio di Capaci e inghiottì il Giudice Giovanni Falcone e gli agenti Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Di Cillo. Con loro morì anche la moglie del magistrato, Francesca Morvillo. Dopo qualche mese, il 19 luglio, un’altra bomba della mafia uccise il Giudice Paolo Borsellino e gli uomini della sua scorta. Quei giorni segnarono l’inizio della stagione terroristica di Cosa Nostra. Tutti abbiamo ancora dinanzi gli occhi le sequenze di quei momenti così drammatici, e soprattutto le poche parole di Antonino Caponnetto davanti al massacro di via D’Amelio: “ ora tutto è perduto “.
Uccidendo quei due magistrati Cosa nostra, secondo un folle disegno criminale, aveva deciso di muovere guerra allo Stato. E non è un caso che qualche mese prima, il 30 gennaio 1992,l a Cassazione abbia dato definitivamente ragione alle loro indagini su Cosa Nostra confermando l’impianto accusatorio della Procura e dell’Ufficio istruzione di Palermo.
In questi venticinque anni tante cose sono cambiate sul fronte dell’impegno antimafia. Oggi esiste un fronte antimafia maggiormente caratterizzato da un impegno concreto, che doaloga anche criticamente con la politica e volto anche alla difesa attiva dei diritti di tutti i cittadini minacciati dalla presenza criminale.
Sono passati venticinque anni da quei mesi colmi di dolore e lutto, attraversati da un’angosciante senso di impotenza, ma anche da una rinata, passione civile. Il ricordo si stempera nei primi freddi giudizi della storia. La guerra contro la mafia non è finita, ma lo Stato ha inflitto duri colpi a Cosa Nostra, arrestando alcuni tra i capi e facendo breccia nell’organizzazione, attraverso i pentiti. Una battaglia è stata vinta, quella dello scontro frontale, dei grandi attentati e delle stragi culminate con le auto-bombe di Roma, Milano e Firenze. La mafia ha saputo resistere e si è riorganizzata, in altri modi e sotto altre forme.
Una fase si è chiusa e se n’è aperta un’altra. La mafia si è nascosta. Non cerca i gesti eclatanti, né le prime pagine dei giornali, ma conserva la forza e la capacità di infiltrarsi nelle pieghe della vita civile. Mantiene un inalterato potere corruttivo e un’altissima pericolosità criminale.
Spesso mi sento rivolgere , specialmente dai giovani , questa domanda: per quale motivo è stato ucciso Giovanni Falcone? E perché, pochi mesi dopo la stessa sorte è toccata a Paolo Borsellino? Perché in quei momenti bui, loro due, insieme a pochi altri magistrati, tra cui il sottoscritto, erano in prima linea nella lotta antimafia con pochissimo seguito. Costituivamo quell’esiguo gruppo di magistrati che facendo parte del pool antimafia istruimmo il maxiprocesso riuscendo a portare alla sbarra oltre 700 mafiosi, autori di centinaia di omicidi, ed altri gravissimi reati.
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino vennero uccisi perché rappresentavano il più grosso ostacolo alla egemonia criminale dei capimafia e non soltanto dei capi mafia sia in Sicilia che fuori della Sicilia. Si trattò di una sentenza già pronunziata molti anni prima sia per Giovanni Falcone che per Paolo Borsellino. La mafia aspettò fino al momento opportuno e poi agì. La morte di Falcone rientrava nella strategia spietata dei corleonesi che era quella di abbattere qualunque ostacolo, anche giudiziario, si frapponesse tra loro e l’impunità dei crimini sui quali avevano fondato il loro potere. Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande». La frase di Giovanni Falcone, assassinato 25 anni fa, nel pomeriggio del 23 maggio 1992, può essere presa a modello ideale dell’importanza che questo magistrato ha avuto nella storia della lotta alla mafia.
Falcone «era entrato in un gioco troppo grande» poiché non solo aveva portato alla sbarra e ottenuto la condanna del vertice «militare» di Cosa Nostra, ma aveva dato vita a un efficace metodo d’indagine contro le organizzazioni criminali, aveva ispirato un nuovo modello legislativo che è all’origine dei successi ottenuti dallo Stato nei confronti del fenomeno mafioso ed aveva capito ed individuato gli oscuri interessi di volontà esterne alla organizzazione mafiosa convergenti con gli interessi di questa.
D’altra parte ancora oggi sono in corso indagini volte ad individuare eventuali volontà esterne alla organizzazione mafiosa che ,con una convergenza di interessi con tale organizzazione potrebbero avere voluto le stragi. La lotta alla mafia per Falcone non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione ma un movimento culturale e morale, che coinvolgesse tutti opponendosi al compromesso morale, alla indifferenza ,alla contiguità e quindi alla complicità.
Ricordo l’entusiasmo di Falcone quando dopo i successi originati dalle dichiarazioni di Buscetta disse “ la gente fa il tifo per noi “ E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l’appoggio morale dei cittadini dà al lavoro del giudice ma voleva soprattutto riferirsi al fatto che il nostro lavoro, il suo lavoro stava creando una breccia nei sentimenti di accettazione, di convivenza con la mafia, che costituiscono la sua vera forza
Furono momenti difficili, durante i quali tutti ci chiedemmo se non fosse arrivata la fine della democrazia. Invece fu una occasione per raccogliere le energie necessarie per ricominciare a lottare. Ed infatti la magistratura, gli investigatori di polizia ,carabinieri, guardia di finanza, gli esperti scientifici insieme hanno assicurato alla giustizia gli autori materiali delle stragi in cui persero la vita Falcone e Borsellino. Ed è auspicabile che vengano anche individuate le eventuali volontà esterne di cui ho detto.
Ma chi era Falcone come uomo e come giudice? Falcone era una persona serena, equilibrata, consapevole che il miglior modo per arrivare alla verità è cercarla senza preconcetti, senza impostazioni ideologiche e senza prevenzioni con il solo scopo di arrivare all’accertamento della verità. Ricordo che gli stessi criminali, anche quelli più incalliti si rivolgevano a lui con il massimo rispetto mentre i collaboratori di giustizia dalla sua personalità erano indotti a rompere il muro dell’omertà fino a quel momento impenetrabile. Giovanni Falcone era un giudice con la G maiuscola e rimarrà un esempio per tutti noi, insieme a Paolo Borsellino. Falcone ripeteva spesso : non sono un eroe, ma un servitore dello Stato. Servitore dello Stato è colui che, in una democrazia come la nostra, fa il proprio dovere e lo fa fino all’ultimo. Falcone certamente è stato un servitore dello Stato ma è stato anche un eroe se con questa espressione identifichiamo colui che combatte per l’affermazione dei valori fondamentali che costituiscono il bene di un popolo
Sono passati venticinque anni da quelle morti. Restano la memoria e la storia; restano la grandezza dell’uomo, la sua vita, l’esempio e la passione. Tra i molti altri ricordi resta una piccola frase che il Giudice Falcone ripeteva spesso, una frase semplice, ma terribilmente complessa, chiara e di tragica grandezza: “Io sono – diceva – semplicemente un servitore dello Stato, fino alla morte”
Alberto Di Pisa

















