Dopo venticinque anni si tenta di riaprire un caso letterario. Quello di Giuseppe Lo Presti, scrittore maledetto e dalla vita maledetta. Mondadori pubblicò il suo romanzo d’esordio “Il cacciatore ricoperto di campanelli” negli Oscar Originals. Era il 1990. Aldo Busi aveva ricevuto presso la redazione di Epoca uno scritto, dato alle stampe da una cooperativa del Torinese, dal titolo incomprensibile, “L’indominio della discordanza”. Malgrado il titolo e la dedica “A tutti i camerati caduti”, Busi lo lesse tutto di un fiato e, attratto dal non comune talento narrativo dell’autore, Giuseppe Lo Presti, riuscì a farlo pubblicare dalla Mondadori. “L’indominio della discordanza” divenne “Il cacciatore ricoperto di campanelli” e fu accolto con entusiasmo dalla più avveduta critica letteraria: tra gli altri, Geno Pampaloni, Franco Brevini, Giuseppe Pontiggia, Giovanni Pacchiano esaltarono nelle terze pagine dei più autorevoli giornali la prosa limpida e corrosiva di Lo Presti. Poi, però, passati pochi anni, di Lo Presti non si parlò più. I giornali continuarono ad occuparsene, ma non nelle pagine culturali, ma in quelle di cronaca nera.
Già, perché Giuseppe Lo Presti è stato uno scrittore particolarissimo: non frequentava i salotti letterari, ma gli ambienti dell’estrema destra negli anni di piombo. E allora far parte di quei gruppi eversivi significava anche dedicarsi alla delinquenza comune: fare rapine nei cinema, negli uffici postali, nelle banche.
Lo Presti era nato ad Alcamo nel 1958, ma dieci anni dopo a seguito del terremoto si trasferì, con i genitori, a Torino. Dove giovanissimo si avvicinò ai gruppi di estrema destra e iniziò la sua carriera criminale. Una carriera che gli fece conoscere buona parte dei penitenziari italiani. Rimase recluso per ben nove anni. E fu proprio nelle carceri, dove prediligeva isolarsi nelle biblioteche, che coltivò la scrittura. Negli ultimi anni della sua vita, trascorsa tra un interrogatorio e l’altro dei tanti processi in cui rimase coinvolto, contrasse una grave malattia che, nel 1995, a soli 37 anni, lo condusse alla morte.
La biografia di uno scrittore però va tenuta distinta dalle sue pagine. Che, ne “Il cacciatore ricoperto di campanelli”, esprimono, con stile graffiante e caustico, un malessere giovanile diffuso e una vibrante protesta contro il conformismo estranei alla sua militanza sovversiva e alla sue vicende delinquenziali.
Un anno dopo il cult book lanciato da Busi, Lo Presti pubblicò un racconto in una monografia della Franco Angeli, “Ai margini”, sul disagio giovanile. Poi lo scrittore Lo Presti fu condannato all’oblio.
Adesso Salvatore Mugno, poliedrico intellettuale trapanese, ha curato per Stampa alternativa “Il cacciatore”.
Ne “Il cacciatore” viene riproposto “Il cacciatore ricoperto di campanelli” e, insieme a quel romanzo, un lungo racconto, “Vittorino testa di bue”. “Vittorino testa di bue” ha per protagonista un ragazzo ritardato dal cranio sproporzionato che viene rinchiuso in una clinica per malati di mente. Il racconto conferma le grandi doti affabulatorie di Lo Presti. La sua denuncia del trattamento disumano di chi ha disagi psichici si manifesta in una scrittura piena di tensione, allucinata e trasgressiva, venata di sarcasmo, per certi aspetti sperimentale e comunque assai efficace.
“Il cacciatore” contiene, accanto alle due opere, oltre la biografia di Lo Presti, una nota del curatore Salvatore Mugno che si sofferma sagacemente sulla sua cifra stilistica e riporta alla luce i giudizi assai lusinghieri della critica al suo primo romanzo. In questa tardiva riscoperta di Lo Presti – che si auspica foriera di rinnovato interesse in un establishment letterario colpevolmente pigro e conformista – una sola nota dissonante: il sottotitolo del libro, “Due romanzi negli anni di piombo”. Né “Il cacciatore ricoperto di campanelli”, né “Vittorino testa di bue” –entrambi esempi di un talento letterario purissimo – hanno nulla a che vedere con l’eversione fascista di quel periodo buio della nostra storia.