Montalbano e il giudice integerrimo che processa se stesso. La giustizia secondo Camilleri

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Generalmente non vedo le repliche dei film per la TV, ho fatto una eccezione per la puntata del Commissario Montalbano, su Rai 1 lunedi sera. E’ andata in onda la replica di “Come voleva la prassi”, tratto da un racconto di Andrea Camilleri. Non posso dire di avere fatto questa scelta per un motivo preciso. Non ricordavo la trama del film, avevo però una vaga memoria che esso mi avesse intrigato. Ho scoperto, la ragione dei mio interesse, rivedendolo.

Non è tanto la storia, l’indagine del Commissario Montalbano, a suscitare il mio interesse, ma un episodio che trova spazio dentro l’indagine, anzi a latere di essa.

Non c’è racconto di Camilleri che non intrecci più vicende attorno alla storia principale. Esse non servono ad allungare il brodo né a distrarre l’attenzione del lettore-telespettatore, ma a creare il contesto nel quale il Commissario svolge il suo lavoro.

Contrariamente a quanto accade nei thriller d’oltreoceano, che non si allontanano dal filone principale, intenso e pieno di colpi di scena, Montalbano vive le sue avventure restando legato alla routine, i piaceri della cucina, il caffè, le amicizie, le curiosità, cui non si sottrae.

In “Come voleva la prassi” la vicenda minore è di gran lunga più intrigante della indagine, la morte di una diciannovenne, che ha subito la violenza di gruppo perpetrata dalle persone “per bene” della città.

Due delitti ed una pericolo mortale, corso dal Commissario, non riescono a far dimenticare la vicenda di un magistrato che si ritira nel suo eremo a mare, a Vigata, dopo avere lasciato la toga, e si fa portare a casa copia dei processi celebrati per “revisionarli”. Sospetta infatti di non avere agito secondo coscienza ma non sa quando e fino a che punto. E’ tormentato e vuole, stavolta, giudicare se stesso.

Il sospetto non nasce da favori, pressioni, interessi di parte, ma perché alcuni episodi della sua vita – spiacevoli – potrebbero avere condizionato il giudizio ed indirizzato malamente la verità processuale.

 

Il giudice compie una passeggiata matutina sulla spiaggia, dalla sua terrazza Montalbano nota quell’uomo anziano ed elegante, solitario e triste. Sente il bisogno di avvicinarlo, di conoscerlo, di sapere. Non riuscirà ad allacciare un’amicizia, ma potrà scoprire il tormento del giudice, grazie a brevi conversazioni. Quanto basta però per preoccuparlo, al punto da parlarne con il figlio del giudice che abita altrove. A lui suggerisce di fare una visita al magistrato, ma il figliolo è preso dal suo lavoro e non attribuisce soverchia importanza alle preoccupazioni del poliziotto. La solitudine del giudice non basta a giustificare un viaggio a Vigata.

In una notte come le altre, la sirena dei Vigili del Fuoco sveglia Montalbano, che dorme con la sua compagna. E’ la casa del giudice in fiamme. Centinaia di fascicoli in fumo, il corpo del giudice privo di vita.

Qualche giorno dopo la tragedia, Montalbano riceve un pacco, accompagnato da una lettera del giudice, che ha scoperto la sua colpa: ho condannato a trenta anni di reclusione un uomo che si proclamava innocente. Ero persuaso che fosse colpevole fin dal primo istante, confessa il giudice. “Ed ho scoperto per quale ragione. Avevo subito dei torti, la vita mia aveva riservato eventi spiacevoli, ed ho condannato un uomo che dopo dodici anni è morto in carcere.”

 

Che il giudice si sia suicidato, Cammilleri non ce lo racconta, ma è iorrilevante. E’ come se la sua sorte fosse segnata. Le parole del magistrato scrupoloso restano nella memoria del Commissario e dei telespettatori. “Veda, Montalbano”, spiega il giudice in uno dei suoi brevi fugaci incontri con il poliziotto. “Certe volte cerchiamo la ferocia negli altri, mentre è dentro di noi”.

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