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Eureka, i sordi non sono più audiolesi. Sono sordi e basta.
Il linguaggio politicamente corretto arretra. Un buon segno

18 maggio 2009 19:42
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A conclusione del telegiornale delle 14,30 circa sulla terza rete Rai, la conduttrice, come fa di consueto, ha avvertito i telespettatori che alle 15 circa sarebbe stato trasmesso il telegiornale per i sordi. Dopo l’annuncio, fatta una breve pausa, ha spiegato: è così che vogliono essere chiamati, sordi.

 

E’ finita l’era degli audiolesi? E gli operatori ecologici torneranno ad essere chiamati spazzini? In stazione qualcuno potrà chiamare facchino, il facchino?  Gli uomini e le donne con un handicap, ne siamo convinti, continueranno ad essere “diversamente abili”. Ma i ciechi? Videolesi o ciechi?


Il segnale che giunge dai sordi sembra preludere ad una inversione di tendenza, lascia supporre che il linguaggio politicamente corretto abbia perduto il suo appeal. E’ solo una ipotesi perché è dificile credere che qualcuno al bar abbia l’audacia di chiamare “cameriere” il cameriere, nonostante ne senta la necessità urgente.  Il galateo non permette di battere il cucchiaino sul bicchiere, che era una volta uno dei modi per farsi ascoltare, ora questo mezzo di comunicazione è stato bandito. Non è à la page, dicono quelli che inventano le mode, i galatei e il linguaggio politicamente corretto.


Visto che finalmente è in corso un ripensamento, troviamo il coraggio di scrivere senza peli sulla lingua che questa storia non ci ha mai convinto perché crediamo che il rispetto lo si ottenga anche quando il cieco è chiamato cieco e il sordo, sordo.  I diversamente abili definiti handicappati mette qualche brivido, in verità, ma anche questo, pensandoci sopra senza pregiudizio, potrebbe essere davvero una questoone marginale. Il migliore modo per dimpstrare buona educazione verso i divetsamente abili è costruire le coprsie preferenziali, attrezzare le scale e gli ascensori, creare le condizioni perché chi non può fare qualcosa a causa di un gap fisico, sia messo nelle condizioni di parità con gli altri.


Le pari opportunità che hanno richiesto la titolarità di un dicastero, seppure senza portafogli, non può essere – per esempio – solo un presidio (legittimo, giusto) a favore delle donne che in fabbrica, in ufficio, in cattedra o in famiglia, subiscono discriminazioni, talvolta gravi. Occorre questo obiettivo, le pari opportunità sia perseguito anche per tutte le altre comndizioni dell’uomo, donna o bambino, che a causa di un  gap fisico o mentale, non siano nelle condizioni di vivere una vità degna di essere vissuta. Non basta mettere al mondo una creature, occorre concedere a questa creatura la “opportunità” di vivere in modo dignitoso.


Crediamo che i portatori di handicap tengano in maggior conto la realizzazione di strumenti, mezzi, strutture, risorse (anche di carattere normativo) piuttosto che il linguaggio politicamente corretto, che talvota costituisce un modo per pulire la coscienza. Si rispetta il diversamente abile attrezzando i luoghi pubblici, le scale marciapiedi strade, e non definendolo tale.
 

I coloured potrebbero essere definiti tranquillamente negri se non ci fosse qualcuno che li ritiene pregiudizialmente delinquenti se arrivano con un  barcone da clandestini. E la carità cristiana potrebbe essere meglio donata ai nostri “fratelli” che scappano dalla fame, dalla miseria e dalla tirannia, facendo sentire la propria voce nei luoghi in cui si decide che cosa si deve fare per coloro che hanno avuto la ventura di non nascere in Italia ma in Somalia o nel Burundi.


Diffidiamo molto del linguaggio politicamente corretto, così come abbiamo diffidato sempre del galateo “officiato” con pignoleria. Le buone maniere attengono al rispetto della persona e non solo ai gesti da compiere a tavola o al tavolo da gioco. Se veniamo ascoltati con attenzione e c’è qualcuno che prende in considerazione ciò che diciamo, ed è addirittura disposto a metter in discussione le sue idee, vuol dire che godiamo di rispetto, divetsamente abile o meno.


C’è un sacco di gente che pur avendo tutte e due le gambe, un buon udito ed una vista magnifica, è tenuta ai margini della società.  Nessuno ha ancora inventato una definizione efficace per le vittime dell’ingiustizia, della disumanità e della disaffettività. Ma non fa niente, le discriminazioni resterebbero tali anche se la definizione fosse trovata ed accettata. Come accade ai diversamente abili, che non sono più chiamati handicappati, ma che non possono uscire di casa perché le scale non lo permettono.

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