Negli anni ’90 non mi perdevo un numero del periodico “Cronache parlamentari siciliane”. Il mensile, diretto da Salvatore Parlagreco, era puntualissimo nelle notizie di politica regionale, ma anche ricco nelle pagine culturali. Quest’ultime mi interessavano maggiormente e, soprattutto, mi attraevano gli elzeviri –ché tali potevano definirsi – di Aldo Gerbino dedicati ai paesi della Sicilia. M’innamorai subito della scrittura di Gerbino, che accostai a quella di Bufalino: con poche pennellate, in una sorta di prosa d’arte, Gerbino coglieva l’anima di piccoli, e a volte sperduti, centri isolani.
Seppi dopo (ma avrei dovuto immaginarlo) che Gerbino era un poeta e un critico letterario, oltre che un medico docente universitario.
La numerosa produzione letteraria di Gerbino è al momento ferma al recentissimo “Cammei” edito da Pungitopo, che raccoglie dieci profili di protagonisti della cultura: Leonardo Sciascia e Stefano Vilardo, Ugo Attardi, Francesco Carbone, Giacomo Giardina, Edoardo Sanguineti, Ferdinando Albertazzi, Elio Pecora, Antonio Castelli, Vanni Scheiwiller, Elio Filippo Accrocca. A contarli, ci si accorge che sono undici e non dieci, ma Leonardo Sciascia e Stefano Vilardo, compagni di classe e amici per una vita, si spartiscono lo sguardo indagatore di Gerbino nello stesso brano: quello che apre il libro, “Nanà e Stestè”, e a cui è dedicata la copertina che fa omaggio alla contrada “Noce” di Racalmuto, prediletta dallo scrittore de “Il giorno della civetta”, con un acquarello di Cazzaniga e uno scatto di Scianna.
Nelle sinfonie il primo movimento non può deludere: reca l’impronta dell’opera, ne enuncia il moto ispiratore, il tratto saliente. Qualcosa di simile accade in letteratura nelle silloge: la poesia, il racconto, il bozzetto d’apertura anticipano temi, intenti, cifra di stile. “Nanà e Stestè”, nella pur variegata galleria di “Cammei”, non sfugge alla regola ed enuncia al meglio i propositi del libro: cogliere gli uomini con occhio da poeta; un occhio, cioè, che attraverso un particolare, ai più privo di spessore significativo, cattura e ferma l’essenza. Di quelle pagine, perciò, rimangono impressi l’immagine di Sciascia, stanco per le cagionevoli condizioni di salute ma cortese, che continua a salutare gli amici Gerbino e Vilardo mentre a bordo della loro auto si fanno più lontani: ‹‹Ricordo che sorrisi nell’osservare come egli alzasse, più di una volta, il suo scarno bastone di legno››; e il ritratto di Vilardo in cui traspare la sua limpidezza, il suo rigore etico.
Sono sempre dei particolari a polarizzare l’attenzione di Gerbino; particolari da cui zampilla una sottile vena ironica e ludica, come ne “I calzini di Sanguineti”, o che rivelano, nei giochi di luce del paesaggio ibleo, la profonda innocenza del poeta-pecoraio Giacomo Giardina, o che si fanno presagio di un dramma umano – i lunghi gradini che conducono al tredicesimo piano dell’abitazione palermitana di Castelli il cui splendido panorama preannuncia il tragico epilogo dell’esistenza del talentuoso scrittore.
Il registro umorale di Gerbino, in questi dieci schizzi d’autore, alterna riflessioni malinconiche e interrogativi esistenziali a momenti prosaici attraversati da annotazioni curiose non prive di elegante humor (in “Presepomania”, lessico inventato dall’autore, si scherza sull’infantile passione per i presepi di Vanni Scheiwiller).
La scrittura di Gerbino è assai ricercata: nella scelta dell’aggettivo più appropriato, del costrutto sintattico più completo, della locuzione più felice, della punteggiatura più efficace, del suono della parola cui giova anche l’accentuazione che la connota, non importa se oggi in disuso. Ma la ricerca non si rivela fine a se stessa, né manifesta sfoggio di erudizione: è funzionale all’espressione che meglio traduce il sentire dello scrittore. Sicché tra tanti libri che reclamano con una scrittura veloce una veloce lettura, a costo di sciatterie grammaticali, la “bella scrittura” di Gerbino e del suo “Cammei” rivendica una lettura lenta e meditata: una rivincita sulla superficialità.












