La ripetizione è la felicità degli animali: il tempo animale ruota in cerchio, in istanti scanditi, in atti sempre uguali, come ci ricorda Kundera nell’Insostenibile leggerezza dell’essere.
Il tempo dell’uomo invece avanza veloce in linea retta: è per questo che l’uomo non può essere felice, perché la felicità è desiderio di ripetizione. L’abilità del mollusco, del ragno, dell’ape, della tigre è senza evoluzione, senza cambiamenti, senza scelte repentine, senza firma, senza impronta, ripetibile all’infinito. Il più grande e forse il primo enigma della vita animale è che essa è innanzitutto, semplicemente, Vita. E l’uomo, il cui tempo scorre nell’evoluzione, nel cambiamento, nella ricerca del nuovo, non può tuttavia dimenticare che in ogni modo la vita stessa agisce in lui. Quella vita ripetitiva, che scandisce il nascere e il morire, che scandisce il battito del suo cuore e il ritmo del suo respiro.
L’uomo ricerca invece l’irripetibilità dell’atto, l’unicità dell’opera e crede così di conquistare l’immortalità. Nel vortice dell’aspirazione, del superamento, della ricerca, della conoscenza, perde inesorabilmente la possibilità d’essere felice. Lo stesso passato è, nella dimensione progettuale dell’esistenza, un futuro anteriore. E ancora, è un futuro anteriore che c’introduce alla formula dubitativa del nostro passato: sarà poi stato vero che valeva la pena di? Di un accidente facciamo un’occasione essendo la tesi che l’occasione altro non è che l’accidente radicato nella memoria come un futuro anteriore del progetto.
Ma il futuro anteriore ha qualcosa di terribile perché non è un futuro, è un protendersi verso il futuro ma immaginandolo come passato; è terribile dire “quando avrò fatto” o più precisamente “quando sarò stato”, è come dire quando sarò morto, è qualcosa che è già avvenuto, indica un precipitare verso decisioni non per realizzare qualcosa ma per fare una festa per distruggere il presente.
Durante una “lectio magistralis”, in un campo veneziano assolato e silenzioso d’agosto, sotto i grandi ombrelloni bianchi Claudio Magris affermava: “si tratta di vivere da Persuasi o da Retori”, mentre una brezzolina umida proveniente dal canale retrostante il palco gli evitava di sudare malgrado i trentacinque gradi all’ombra. E poi, citando ripetutamente Carlo Michaelstadter, autore di una straordinaria tesi di laurea intitolata: “La persuasione e la retorica”, spiegò con maestria semplice che per Persuasione intendeva il pazzesco della propria vita, la capacità dell’uomo di vivere l’attimo, ogni attimo, non gli attimi privilegiati come quelli pretesi da Faust per dare l’anima al diavolo ma quegli attimi vissuti senza sacrificare il presente, i propri cari, senza consumare incessantemente la vita nell’attesa di un risultato che è sempre da venire. Persuasione è la vita nella sua varietà, non solo nei momenti sublimi, alti, anche se di indubbia predilezione ma proprio in ogni suo momento, come bere un bicchiere d’acqua: Pergolesi in punto di morte compose lo Stabat Mater senza temere il futuro, senza paura della morte, senza sperare che l’angoscia passasse presto, solo felice di creare e non smanioso di avere già creato.
Per Retorica intendeva invece quell’enorme ingranaggio del sapere che gli uomini incapaci di vivere Persuasi, vale a dire di vivere nel presente, ergerebbero come una sorta di grande muraglia per proteggersi dal guardare il proprio vuoto, per proteggersi dalla consapevolezza di non essere capaci di vivere in un non vivere mai. Mi venne in mente il libro di Roth “I cento giorni” in cui, ripetendo la diceria dell’eiaculazione precoce di Napoleone e facendone il simbolo d’uno smanioso attivismo sempre assillato dalla brama di dover avere già fatto, racconta di Napoleone Bonaparte a cui piace fare l’amore ma si sbriga il più presto possibile e quindi con quest’ansia, infine, di futuro anteriore.
Pensai pure che Michaelstadter predicava bene ma razzolò male, cioè non fu interamente capace di vivere Persuaso, diceva di conoscere la persuasione come l’insonne conosce il sonno, non era una buona conoscenza; si uccise a ventitré anni, e questo la dice tutta: incapace di vivere persuaso, fu incapace di viverne senza. Gli mancò forse quell’umiltà che fa dire “io amo l’acqua”, non solo la grande acqua del fiume, quella del mare, che pure non vanno disprezzate, ma “amo l’acqua dello stagno”, della palude, l’acqua dove i bambini vanno a giocare, fanno la pipì, dove immergono le mani, fanno castelli di sabbia, quella poltiglia che dà l’incanto dell’infanzia. Non c’è contraddizione tra questa spinta di natura metafisica che c’incanta di promesse, di favole e quest’acqua che è sabbia che è tutto che è anche porcheria, confidenza col liquame immediato della vita che è altrettanto importante del grande mare blu, come dire a un bambino che gioca, gioca e va su e giù e corre nel giardino, con la truce solennità della voce di un adulto: “Cosa faresti se ti dicessero che morirai fra dieci minuti?” e il bambino: “Continuerei a giocare”. Questa è persuasione, e non è da buttar via.